La finanza pubblica secondo la Corte dei Conti
Nell’impostazione della Costituzione italiana il Governo (Titolo III dell’Organizzazione della Repubblica) è composto da tre Istituzioni: il Consiglio dei Ministri, la Pubblica Amministrazione e gli Enti Ausiliari. Tra questi ultimi “la Corte dei conti esercita il controllo preventivo di legittimità sugli atti del Governo, e anche quello successivo sulla gestione del bilancio dello Stato” (art. 100).
Non deve perciò sorprendere il consistente (quasi 400 pagine) “Rapporto sul coordinamento della finanza pubblica” presentato ad aprile 2017 dalle sezioni riunite in sede di controllo della magistratura contabile.
Infatti, nella prefazione il Presidente Arturo Martucci di Scarfizzi, chiarisce subito lo scopo del Rapporto: “Rientra nei compiti istituzionali della Corte offrire analisi e valutazioni che possano consentire, in primo luogo al Parlamento, di conoscere meglio gli effetti delle politiche pubbliche: per essere consapevoli dei risvolti che l’azione pubblica ha sul sistema economico e, dunque, direttamente o indirettamente, sul benessere della collettività; per adottare, se si ritiene, opportuni aggiustamenti; per ricalibrare, se necessario, provvedimenti già adottati in modo da meglio mirarli agli obiettivi assunti”.
La lettura del nuovo Rapporto (siamo all’ottavo anno, dato che il primo dossier è stato pubblicato nel 2010) conferma l’intenzione della Corte di “fornire un prodotto che presenta la caratteristica non comune di essere particolarmente ricco di dati, nell’intento di rafforzare la portata delle analisi e delle conclusioni che il Rapporto espone sui diversi argomenti affrontati”.
In altre parole, la Corte dei Conti non si limita a verificare la correttezza dei numeri, ma analizza anche la congruenza dei dati con gli obiettivi di politica pubblica, in particolare nel settore economico e finanziario.
Di conseguenza “le considerazioni avanzate a conclusione delle analisi di settore compiute sono destinate, per loro natura, a prospettare anche aspetti problematici o eventuali incompletezze attuative delle misure messe in campo. Del resto, è appunto questo il contributo costruttivo che è richiesto al Rapporto: come e dove è possibile migliorare o perfezionare gli interventi in corso di attuazione”.
Il Rapporto è suddiviso in due parti: i conti pubblici nel contesto europeo (composta da circa 80 pagine) e le analisi delle politiche pubbliche (alle quali sono dedicate oltre 300 pagine). Soprattutto in questa seconda parte il Report è molto dettagliato e articolato relativamente a debito pubblico, politica fiscale, lotta all’evasione, coordinamento delle politiche pubbliche, spese per la previdenza e per l’assistenza, equilibrio di bilancio, investimenti delle regioni e degli enti locali, rapporto tra pubblico e privato, offerta di servizi pubblici, tariffe dei comuni e sistema sanitario.
Ovviamente è impossibile qui proporre una sintesi completa dei contenuti del Report, dovendoci necessariamente limitare ad alcune annotazioni o sottolineature.
Il capitolo più interessante della prima parte è intitolato “il risanamento: uno sguardo agli ultimi 20 anni”. La Corte parte dall’articolo 81 della Costituzione, modificato nel 2012, per verificare l’attuazione concreta della disposizione costituzionale in una prospettiva ventennale: “Si è scelto un periodo così ampio per poter prescindere dagli ups and downs del ciclo economico e politico, guardando alle linee di tendenza sottostanti e poter così valutare se l’insieme delle decisioni politiche assunte e degli strumenti di coordinamento della finanza pubblica adottati ci conduca o meno verso il pareggio di bilancio”. L’analisi è accompagnata da alcuni grafici che evidenziano l’evoluzione dei principali parametri di finanza pubblica dal 1996 al 2016: avanzo primario, interessi sul debito, deficit annuo e debito complessivo. In sintesi emerge questo scenario. “Nel complesso del periodo – si afferma nel Rapporto – il saldo primario, quello sotto l’immediato controllo delle decisioni politiche nazionali, rimane sempre positivo, ma peggiora progressivamente. Diminuiscono anche gli oneri per interessi, neutralizzando gli effetti del peggioramento del saldo primario sull’indebitamento; che infatti rimane tendenzialmente costante, in prossimità del 3 per cento del PIL (non a caso la soglia fissata nel Trattato di Maastricht). Un livello simile del deficit, combinandosi con le altre grandezze rilevanti (prime tra tutte la variazione nominale del Pil) genera, tuttavia, un progressivo aumento del rapporto fra debito e PIL. Una tendenza che a sua volta conferma, inevitabilmente, la fragilità connessa ad una inversione nell’andamento dei tassi di interesse”.
In altre parole, la diminuzione della spesa per interessi è stata vanificata dal calo dell’avanzo primario, producendo bilanci ripetutamente in deficit che hanno comportato un continuo aumento del debito. Significa che l’Italia è un Paese con un situazione instabile, sempre a rischio di default dei conti pubblici: “il che rende il sentiero del risanamento finanziario per l’Italia più faticoso; ma tuttavia, considerato il maggior livello del debito, oltremodo necessario”.
Nella seconda parte del Rapporto, rimanendo sul tema del debito pubblico, è interessante il confronto con gli altri Paesi europei: “emerge come l’Italia sia in una posizione sfavorevole, che non è mutata dallo scorso anno. Il livello del rapporto debito/Pil è il più alto, se si esclude la Grecia, e in aumento anche nell’anno in corso. Tra il 2015 e il 2017 sarebbero in riduzione i debiti in più della metà dei Paesi e solo per cinque è previsto un aumento superiore o uguale a quello del debito italiano”. Insomma, siamo messi male e non stiamo facendo abbastanza –in confronto agli altri Paesi – per uscire dal tunnel dell’indebitamento.
D’altra parte, secondo la Corte, un intervento drastico di taglio del debito non sarebbe auspicabile: “per il rientro del debito si conferma dunque che, in un contesto di crescita moderata, riduzioni rapide che seguano la via dell’aggiustamento fiscale sarebbero eccessivamente costose, mentre il contributo delle dismissioni, certamente necessarie, realisticamente non potrà essere determinante nel breve/medio periodo. La strategia migliore sembrerebbe dunque essere quella di porre il debito su un sentiero discendente, non troppo ripido ma costante, con una correzione dei conti pubblici limitata procedendo al contempo all’azione di riforma strutturale per ravvivare la crescita”.
Un altro punto di particolare interesse è il confronto con tra l’Italia e la media dei Paesi dell’Unione Europea in relazione ad alcuni parametri fiscali. Su otto indicatori scelti per verificare “i limiti e le distorsioni del sistema tributario italiano” l’Italia si ritrova per tutti i criteri con dati peggiori del livello europeo medio. L’economia sommersa: in Europa è al 14,4%, mentre in Italia siamo al 21,1%. L’IVA non versata: in Europa la media è al 17%, in Italia al 30,2%. Il carico fiscale di un’impresa di medie dimensioni: in Europa è al 40,6%, nel nostro Paese si arriva al 64,8%. E via di questo passo.
Di fronte a questi dati la Corte sottolinea come non si possa restare alla finestra a guardare e che sia necessario fare delle scelte fiscali che presuppongono una visione della comunità in cui viviamo: “la praticabilità di una riforma tributaria dipende anche dagli obiettivi redistributivi perseguiti: un aspetto sul quale il grado di convergenza tende a diluirsi fortemente. Il confronto verterà, essenzialmente su come ripartire l’onere del prelievo tra fattori produttivi, da un lato, e consumi e patrimonio, dall’altro; e su come far sì che tali scelte tengano adeguatamente conto dei mutamenti intervenuti negli ultimi anni per effetto delle manovre succedutesi che, non di rado, rivelano scelte redistributive diverse. (…) Per capire se esistono i presupposti per annullare le distanze createsi negli ultimi anni o se, invece, occorrerà continuare ad adattarsi a un sistema tributario senza riforma, in cui coesistono un’elevata pressione fiscale e misure agevolative all’origine di crescenti conflitti distributivi”.
A questo punto, la magistratura contabile – pur esplicitando la propria propensione riformatrice che punta a diminuire le disuguaglianze – rimette la questione nel campo della politica, con la consapevolezza che “complessivamente, dunque, non vi sono certo le condizioni per affermare che la crisi sia definitivamente alle spalle perché le insidie sono dietro l’angolo a causa delle variabili del contesto europeo e internazionale, ma vi sono buoni motivi per sperare, a condizione che si perseveri in un percorso che sappia conciliare misure a sostegno della crescita e a riduzione delle spese superflue in un quadro di equità sociale”.
In questa prospettiva, c’è da augurarsi che il Rapporto della Corte dei Conti venga letto con attenzione da tutti gli attori della politica pubblica: parlamentari, ministri, consiglieri regionali e provinciali, sindaci, ecc.
Altrimenti si rischia di perdere una significativa occasione di verifica, per correggere e migliorare ciò che si dovrebbe realizzare per il bene comune.
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