Il diritto di asilo e le convenzioni internazionali
Faciloneria e approssimazione, talvolta bassa speculazione politica, spesso ignoranza, quando si parla di migranti e di sbrigativi “sistemi” (respingerli, rimpatriarli velocemente, bloccarli in Libia, non farli partire dai paesi di origine) per risolvere i molti problemi collegati ad un fenomeno complesso come quello delle grandi migrazioni.
Qualche sintetica considerazione sulle norme di diritto comunitario vigenti sul tema può, forse, aiutare a comprendere meglio la questione e indurre a qualche riflessione chi dimentica che viviamo in comunità rette ancora dal diritto. A cominciare dal principio di non respingimento che è il cardine della protezione dei rifugiati. In questo senso l’art.33 della Convenzione di Ginevra del 1951 ( sottoscritta da tutti gli Stati membri dell’UE e del Consiglio d’Europa) laddove stabilisce che: “Nessuno Stato contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche”.
Quindi, quando si parla con preoccupante disinvoltura di rapidi e indiscriminati rimpatri degli stranieri, sarebbe meglio mordersi la lingua. Il principio di non respingimento, peraltro, si applica ai rimpatri sia verso il paese di origine sia verso qualsiasi altro paese in cui il rifugiato verrebbe perseguitato. L’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i Rifugiati (UNHCR), alcuni anni fa, ha pubblicato un manuale delle linee guida sulle procedure e sui criteri per la determinazione dello status di rifugiato ai sensi della suddetta Convenzione.
Nell’ambito del diritto dell’UE, l’art.78 del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea sancisce che l’UE è tenuta a sviluppare una politica comune in materia di asilo, di protezione sussidiaria e di protezione temporanea volta a “garantire il rispetto del principio di non respingimento”. Tale politica “..deve essere conforme alla Convenzione di Ginevra e agli altri trattati pertinenti”, come la Convenzione europea sui diritti dell’uomo, quella sui diritti del fanciullo, quella contro la tortura e obbedire anche a tutte le direttive emanate nel quadro di tale politica come la direttiva qualifiche (2011/95/UE), sulle procedure di asilo (2005/85/CE), sulle condizioni di accoglienza (2003/9/CE), e successive modifiche. La “direttiva qualifiche” ha introdotto nel diritto dell’UE una serie di norme comuni per l’attribuzione della qualifica di rifugiato o di persona che necessiti di protezione internazionale, inclusi i diritti e doveri connessi a tale protezione ( su quest’ultimo punto va ricordata la recente legge di conversione 13 aprile 2017, n.46 su G.U. n.90 del 18 aprile, che ha, tra l’altro, apportato modifiche al decreto legislativo 28 gennaio 2008, n.15, in tema di riconoscimento e revoca dello status di rifugiato ).
Il respingimento di uno straniero, tuttavia, non è proibito in modo assoluto e gli articoli 17 e 21 della citata direttiva qualifiche consentono l’allontanamento di un rifugiato in circostanze veramente eccezionali e cioè quando la persona costituisce un pericolo per la sicurezza dello Stato ospitante o, quando, avendo commesso un grave delitto, rappresenta un pericolo per la collettività. Anche la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, all’art.18, garantisce il diritto di asilo in conformità al principio di non respingimento. Il successivo art.19, poi, dispone che nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui può essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti. Di conseguenza, secondo il diritto comunitario vigente, ogni provvedimento di allontanamento a norma della direttiva rimpatri (2008/115/CE, recepita nel nostro ordinamento con il decreto legge 89/2011 convertito nella legge 189/2011) o di trasferimento di uno straniero verso uno Stato membro a norma del regolamento di Dublino II ( stabilisce quale Stato è competente per l’esame di un domanda di asilo), deve avvenire rispettando il diritto di asilo e il principio di non respingimento.
Gli articoli 2 e 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), inoltre, proibiscono il rimpatrio di una persona che potrebbe essere esposta al rischio concreto di subire un trattamento tra quelli sopra indicati (tortura, trattamento o pene inumane o degradanti) una volta rimpatriata nel paese di destinazione. Si tratta di una tutela assoluta ed è sempre la direttiva qualifiche a indicare che possono beneficare dello status di rifugiato anche le persone che subirebbero un atto di persecuzione ai sensi dell’art.1 lettera A della Convenzione di Ginevra del 1951. Persecuzione che può assumere forme diverse (è l’art.9 della direttiva in questione a precisarlo), tra cui atti di violenza fisica e psichica, provvedimenti legislativi o giudiziari ( per esempio leggi che vietino l’omosessualità o la libertà di religione), nonché gli ” atti specificamene diretti contro un sesso o contro l’infanzia” e, comunque, riconducibili ad uno dei cinque motivi di persecuzione previsti dalla Convenzione di Ginevra del 1951 e cioè razza, nazionalità, religione, appartenenza ad un particolare gruppo sociale e opinione politica ( tutti e cinque richiamati nell’art.10 della direttiva qualifiche). Si ha persecuzione anche nell’ipotesi in cui una persona, una volta rimpatriata, sarebbe obbligata a nascondere, per il timore di subire danni gravi, le proprie opinioni politiche, l’orientamento sessuale, la fede religiosa. Timore di subire persecuzioni o danni gravi da prendere in considerazione anche sulla scorta di avvenimenti verificatisi nel paese di origine del richiedente asilo dopo la sua partenza ( in tal senso la previsione di cui all’art.5 della direttiva qualifiche).
La Corte europea dei diritti dell’uomo (Corte EDU) tende ad esaminare i casi sottoposti ai sensi dell’art.2 o 3 CEDU a seconda delle circostanze particolari del caso e del trattamento che lo straniero rischia di subire se deportato o estradato. In particolare, nei casi relativi all’articolo 2, la prospettiva di morte in caso di rimpatrio deve essere quasi certa, mentre, nelle situazioni ex articolo 3, devono sussistere fondati motivi per ritenere che la persona da allontanare possa correre un rischio effettivo di essere vittima di tortura o di altre forme di maltrattamento vietate. La Corte, oltre a valutare le circostanze personali dell’interessato, esamina le condizioni generali del paese come, ad esempio, se vi sia una situazione di violenza generalizzata, un conflitto armato in atto o se si verifichino sistematiche violazioni dei diritti umani. La documentazione ritenuta attendibile relativamente alle condizioni del paese può esser quella dell’UNHCR o delle varie organizzazioni internazionali per i diritti umani. In generale, una situazione di violenza generalizzata in un paese non è sufficiente per configurare una violazione dell’art.3 della CEDU, mentre se una persona è membro di un gruppo sottoposto a violenze sistematiche può non essere necessario addurre prove relative ai fattori di rischio personali. Secondo la giurisprudenza della Corte EDU, il rischio non deve essere valutato soltanto in base a fattori individuali, ma anche complessivamente, e ogni valutazione deve essere personalizzata.
Al momento della decisione in merito all’ammissibilità alla protezione di rifugiato è necessario pure considerare se nel paese dell’eventuale rimpatrio la persona sarebbe protetta dal danno temuto. A riguardo l’art.7 della più volte citata direttiva qualifiche stabilisce che..” la protezione contro persecuzioni o danni gravi può essere offerta esclusivamente dallo Stato oppure (..) dai partiti o organizzazioni, comprese le organizzazioni internazionali che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio, a condizione che abbiano la volontà e la capacità di offrire protezione..” che deve essere, comunque, “effettiva e non temporanea”. Punto che dovrebbe essere ben tenuto a mente nella ipotesi in cui, in un prossimo futuro, si pensasse di rimpatriare in Libia ( paese che, oltretutto, non riconosce neanche la Convenzione di Ginevra del 1951), in virtù di meri accordi governativi, i migranti partiti da quelle coste. Da tener presente, infine, che in alcuni casi, in relazione a circostanze particolari, la Corte non ha ritenuto sufficienti a garantire una protezione adeguata dal rischio di maltrattamenti neanche le assicurazioni diplomatiche dello Stato ricevente.
Si tratta, alla fine, di un ampio corpus di norme di diritto comunitario che si aggiungono ad una corposa legislazione nazionale che ha nel T.U. sull’immigrazione (Decreto leg.vo 25 luglio 1998,n.286 e successive modifiche e integrazioni) l’impianto normativo fondamentale e per la cui applicazione si richiede una forte specializzazione anche dei giudici ( in questo senso anche la istituzione, nel nostro ordinamento, di ventisei sezioni di tribunale specializzate in materia di immigrazione e protezione internazionale attuata con il decreto legge 17 febbraio 2017, n.13 convertito nella legge 46/2017 sopraindicata). Occorre, tuttavia, anche una grande sensibilità e umanità nell’affrontare il tema delle migrazioni con la consapevolezza di vivere in un mondo perennemente in movimento a causa delle guerre, delle persecuzioni, delle povertà, dei grandi cambiamenti climatici.
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