Orlando: “Contro mafie e terrorismo serve la Procura Europea”
Abbiamo chiesto ad Andrea Orlando, ministro della Giustizia, impegnato in queste settimane nella campagna per le primarie del Partito Democratico, di fare il punto dell’azione di Governo nel contrasto alle mafie e alla corruzione. Con il ministro Orlando abbiamo ragionato su alcune delle questioni ancora irrisolte nel nostro Paese, partendo proprio dall’attualità di questi ultimi giorni.
Il neo presidente dell’ANM Eugenio Albamonte ha criticato la scelta dell’esecutivo di porre la fiducia sul ddl di riforma del processo penale, definendola “particolarmente dannosa”, perché rischia di penalizzare il confronto in Parlamento e fuori. Cosa ritiene di rispondere a tale proposito? Il governo in carica, secondo lei, ha posto in essere tutte le condizioni per favorire il più ampio consenso sulle proposte di riforma?
Il disegno di legge è stato ampiamente discusso sia alla Camera, nel passaggio in Commissione e in Aula, che al Senato, il cui lavoro in sede referente è stato lungo, complesso e molto approfondito. La questione di fiducia non è stata posta per mortificare il dibattito, ma per la consapevolezza che le condizioni politiche della maggioranza non avrebbero favorito una discussione costruttiva, potenzialmente migliorativa, della riforma, che è assolutamente necessaria per un serio recupero di efficienza del sistema della giustizia penale. In questo caso invito tutti coloro i quali tengono alla riforma ad adottare un principio di realismo, senza la fiducia sarebbe stato difficile approvare in Senato il testo. Infine ricordo che il testo approvato, oltre al confronto parlamentare, viene da un dibattito ampio che ha coinvolto ANM, avvocatura, tutti i soggetti della giurisdizione, ed in larga parte frutto di una commissione che è stata presieduta dall’attuale Primo Presidente della Cassazione.
Ci può illustrare per sommi capi quali sono i punti fondamentali della riforma del processo penale? E può dirci se sarà possibile evitare quello che successe nel 1989, quando l’entrata in vigore del nuovo codice di procedura penale creò molte aspettative ma si impantanò fin da subito, proprio per la difficoltà di dare consistenza alle nuove norme con adeguate risorse umane ed economiche?
La riforma si muove in assoluta continuità con le scelte di fondo compiute con il codice del 1989 e quindi la sua attuazione non correrà il rischio di pesanti rallentamenti, come avvenne allora, quando si sostituì un modello di processo, il cd. inquisitorio garantito, con quello attuale a tendenza spiccatamente accusatoria. La riforma cerca di ottimizzare la resa di alcuni istituti processuali, facendo tesoro dell’esperienza applicativa di questi anni.
Nessuna rivoluzione, quindi, ma sapienti e ben calibrati accorgimenti innovativi, che saranno rapidamente metabolizzati nella realtà giudiziaria, assicurando sin da subito effetti di accelerazione delle procedure nel rispetto pieno dei diritti e delle garanzie individuali. Introduce nuovi meccanismi di anticipata definizione del processo con l’estinzione di alcuni reati, in modo da alleggerire il sistema penale dal carico dei processi per i fatti di minore rilievo; modifica la prescrizione del reato, consentendo che i giudizi di impugnazione, dopo una sentenza di condanna, possano svolgersi senza il pericolo che intervenga la causa estintiva del reato, impedendo che si abbia una pronuncia definitiva sul fatto accertato con la sentenza di primo grado; modifica il sistema delle misure di sicurezza; semplifica i controlli sui provvedimenti di archiviazione; amplia i diritti della persona offesa nel corso delle indagini preliminari, con il diritto di conoscere lo stato del procedimento e di sollecitare l’attività del pubblico ministero; riduce, in maniera contenuta e controllata, l’area della impugnabilità delle sentenze e specificamente della ricorribilità per cassazione; rafforza gli oneri dell’appellante; riforma interamente il sistema penitenziario, nella prospettiva di intensificare la funzione rieducativa della pena detentiva nel rispetto dei diritti fondamentali della persona, ma senza trascurare le esigenze di difesa sociale che si avvertono in riferimento alle condanne per i reati di mafia e di terrorismo.
Le ultime notizie sull’inchiesta CONSIP – al netto degli accertamenti in corso da parte della magistratura – mettono ancora una volta in discussione l’utilizzo delle intercettazioni. Le possibili fughe di notizie, mentre le indagini sono in via di svolgimento, la loro pubblicazione mettono in contrapposizione beni fondamentali quali la libertà d’informazione, la presunzione d’innocenza, la trasparenza della vita pubblica. Secondo lei, è possibile pensare a dei correttivi alla normativa o alla prassi che possano contemperare in un’utile sintesi tutti questi beni, senza sacrificarne alcuno oppure è meglio affidarsi alla professionalità della magistratura e delle forze dell’ordine?
Il disegno di legge che riforma il processo penale contiene alcune direttive di delega per la modifica della disciplina delle intercettazioni nella direzione di una migliore tutela del diritto alla riservatezza di quanti sono coinvolti dalle operazioni di intercettazione, senza che ciò si traduca in un pericolo per la tenuta investigativa di uno strumento di indagine spesso indispensabile. Si tratta di un obiettivo realistico, che è stato già oggetto dell’attenzione di molte Procure della Repubblica (penso a Roma, Torino, Napoli), le quali hanno elaborato alcune linee- guida tratte dalle prassi migliori già formatesi a legislazione vigente.
Il compito del legislatore è ora di assicurare una cornice normativa stabile e chiara che favorisca i comportamenti virtuosi ed impedisca decisamente le deviazioni e degenerazioni delle prassi.
Ogni giorno la cronaca ci racconta di nuovi scandali che vedono i meccanismi della corruzione sempre più radicati, al nord come al sud. Contro una corruzione così endemica cosa è possibile fare? È solo un problema di leggi più efficaci oppure di uomini e di comportamenti, soprattutto nella vita pubblica?
Non è solo un problema di leggi. Noi abbiamo in questi anni implementato il sistema di repressione penale e aggiunto un pilastro che mancava al nostro Paese, quello della prevenzione con la nuova ANAC. Molti organismi internazionali hanno riconosciuto questi progressi. Penso all’introduzione dell’autoriciclaggio e alla reintroduzione del falso in bilancio. Penso al giudizio molto positivo del OCSE sulla nostra proposta di riforma della prescrizione. Per combattere la corruzione non servono però solo buone leggi penali, serve soprattutto una Pubblica amministrazione improntata su principi di trasparenza, efficienza e misurabilità, in cui vengano ridotti al minimo i meccanismi di intermediazione.
Il conflitto tra politica e magistratura è una costante della storia recente del nostro Paese, a partire da Mani pulite ad oggi. Dobbiamo rassegnarci al fatto che l’unico strumento di selezione della classe dirigente debba essere la condanna passata in giudicato, oppure non è possibile chiedere alla politica di fare un salto in avanti, magari collaborando in modo bipartisan all’approvazione di un testo che regolamenti la vita dei partiti, dando piena attuazione all’art. 49 della Costituzione?
Credo che il nostro compito sia rifondare la buona politica. Negli anni novanta nel nostra Paese si è imposta la retorica che i partiti fossero il male. Si evocata una democrazia dei cittadini. I Partiti si sono indeboliti, ma la politica non è migliorata. Anzi. L’indebolimento dei corpi intermedi ha reso più fragili e incerti i percorsi di formazione di nuove classi dirigenti, aprendo spazi ancora più grandi all’infiltrazione di fenomeni criminali. Penso al proliferare di liste locali che spesso, molte indagini lo dimostrano, sono diventate il veicolo attraverso il quale anche organizzazioni criminali hanno infiltrato la rappresentanza. Io sono convinto che serva una legge di attuazione dell’articolo 49 della Costituzione, che disciplini in maniera rigorosa la vita dei partiti, gli obblighi di trasparenza, di democrazia interna, i meccanismi di finanziamento. La Germania da questo punto di vista è un modello.
Parliamo di mafie ora. Le forze dell’ordine lavorano instancabilmente nella cattura dei latitanti e per il sequestro dei patrimoni illeciti. Eppure resta l’amara sensazione che sia un lavoro improbo che poco incida sulla vita delle consorterie mafiose. La capacità delle cosche di reclutare nuove leve resta indiscussa, soprattutto al sud dove mancano lavoro e diritti. Il ministro della Giustizia quali strumenti può mettere in campo per stroncare alla radice il ricambio della manovalanza criminale? Il sistema della giustizia minorile non necessita di correttivi, a partire dal rafforzamento dei Tribunali per i minorenni e di tutte le misure ad essi collegati?
Dobbiamo essere consapevoli dei grandi progressi realizzati in questi anni. L’aggressione ai patrimoni, frutto della migliore antimafia politica e sociale, è diventato un pilastro fondamentale della nostra strategia di contrasto. In queste settimane ho più volte ricordato Pio La Torre, è anche grazie alla sua battaglia che abbiamo fatto passi in avanti fondamentali. Sulla giustizia minorile dobbiamo affermare con convinzione una cosa riconosciuta da tutte le organizzazioni internazionali, cioè che abbiamo un sistema penale minorile tra i migliori al mondo, con un tasso di recidiva molto basso e con un utilizzo massiccio di misure alternative. Adesso siamo impegnati in una riforma per far diventare questo modello la base per costruire un nuovo tribunale della famiglia che unifichi le competenze in materia di famiglia del tribunale ordinario e di quello minorile, utilizzando e valorizzando l’esperienza positiva di questi anni.
Sempre a tale riguardo, come valuta la situazione attuale delle carceri italiane? Sono ancora quegli incubatori di criminalità e disagio che spesso ci vengono tramandati dagli stereotipi oppure ci sono dei segnali in controtendenza, tali da poterci tranquillizzare rispetto alla capacità del sistema penale di rendere effettiva la “rieducazione del condannato” prevista dall’art. 27 della nostra Costituzione?
I segnali di controtendenza ci sono stati. Stiamo cambiando il carcere e il modello di esecuzione della pena, allineandoci agli altri gradi Paesi Europei. Abbiamo superato l’emergenza. Evitato la condanna della CEDU, che ha riconosciuto i nostri sforzi e ci ha indicati come un modello per altri Paesi con problematiche di sovraffollamento. Abbiamo aumentato l’utilizzo della misure alternative alla detenzione. Prima che arrivassi a via Arenula il rapporto era 4 detenuti per un soggetto a misura alternativa, adesso il rapporto è 3 a 2. Non abbiamo ridotto il numero di soggetti sottoposti a controllo penale, ma abbiamo adottato una visione nuova, più aderente al nostro dettato Costituzionale, di esecuzione penale. Adesso siamo in attesa dell’approvazione definitiva della riforma dell’ordinamento penitenziario che raccoglie le idee emerse dal percorso degli Stati Generali dell’Esecuzione Penale.
Altrettanto inattaccabile sembra essere la grande ricchezza delle organizzazioni mafiose, capace di inquinare i meccanismi dell’economia legale. In tema di contrasto ai patrimoni mafiosi, l’applicazione della legge 109/96 che consente il riutilizzo dei beni confiscati alle mafie ha dato vita ad esperienze straordinarie ma anche a storture inaccettabili, basti pensare a quello che è successo a Palermo, con il pesante coinvolgimento del presidente della sezione delle misure di prevenzione patrimoniali in una vicenda ora al vaglio degli inquirenti. Anche in questo caso le proposte ferme in Parlamento possono essere un elemento utile oppure manca ancora qualcosa, secondo lei?
È all’esame della Commissione Giustizia del Senato la proposta di legge di riforma del cd. codice antimafia, già approvata dalla Camera dei Deputati. In quel testo è confluito un disegno di legge di iniziativa governativa che si muoveva nella medesima direzione: rafforzamento delle garanzie nel procedimento di prevenzione e maggiore efficacia dello strumento di aggressione dei patrimoni illeciti. La proposta di legge modifica, in maniera consistente, la disciplina dell’amministrazione e gestione dei beni sequestrati e confiscati, con particolare attenzione alle imprese, facendosi carico di eliminare, o comunque contenere, il rischio di abusi anche da parte di chi è preposto al controllo di legalità. Dobbiamo pretendere trasparenza, altrimenti il rischio è che le cose buone fatte in questi anni vengano travolte dalle opacità.
La drammatica storia di Maria Rita Lo Giudice – comunque vada a finire, abbiamo a che fare con la scomparsa di una giovane vita – impone una risposta da parte delle istituzioni per tutte quelle situazioni che, ad oggi, non sono codificabili nelle figure dei collaboratori e dei testimoni di giustizia. Libera chiede da tempo una “terza via”, perché possa essere offerta una prospettiva di vita a chi intende rompere con il suo passato, ma allo stesso tempo non abbia nessun contributo da offrire alla giustizia, perché all’oscuro delle vicende criminali dei propri congiunti. Analoga soluzione sembra doversi prospettarsi per dare una risposta alla coraggiosa e delicata azione intrapresa dal Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria che, con una serie di provvedimenti, ha disposto l’allontanamento dalle famiglie d’origine di alcuni minori. Che ne pensa?
Condivido questo approccio. Dobbiamo fare in modo che chi vuole rompere i legami con le organizzazioni mafiose venga sostenuto dallo Stato. Rompere quei legami è difficile, è un gesto di grande coraggio soprattutto in alcuni contesti. Lo Stato non può lasciare solo chi decide di intraprendere quel percorso, anche se non è in grado di dare un contributo diretto alle indagini.
Da ultimo come valuta la cooperazione internazionale nel contrasto alle mafie? Secondo lei, a venticinque anni dalla morte di Falcone e Borsellino, a trentacinque di quella del Prefetto Dalla Chiesa, siamo riusciti a spiegare all’Europa e al resto del mondo che le mafie da tempo non sono più un problema solo dell’Italia, ma sono invece un fenomeno che li riguarda da vicino?
Il ritardo, in materia di cooperazione giudiziaria internazionale, era soprattutto del nostro Paese. In questi ultimi anni il mio Ministero ha lavorato per l’attuazione di numerose decisioni-quadro e direttive dell’Unione europea che per anni non erano state recepite, mortificando l’esigenza di una diretta collaborazione tra le autorità giudiziarie nel comune spazio giudiziario europeo. Sta per essere ultimata la riforma del codice di procedura penale per la parte relativa alle cooperazione internazionale e il nostro Paese rispetterà il termine indicato dall’Unione per il recepimento della direttiva sull’ordine di indagine europeo, che riformerà, nel senso di una migliore efficienza ed efficacia di azione, la cooperazione giudiziaria anche sul versante della criminalità organizzata. Le mafie cambiano, mutano pelle, si radicano in nuovo contesti sociali, invadono sempre più spesso territori nuovi. Serve un nuovo paradigma. E anche in questo caso serve più Europa. Le mafie assumono sempre più una dimensione transnazionale, si rafforzano tra gli spazi lasciati vuoti tra ordinamenti nazionali diversi e disomogenei. Pe questa ragione ho condotto una battaglia per una nuova Procura Europea, in grado in prospettiva di occuparsi di contrasto ai più gravi fenomeni criminali. Sempre per questa ragione da Ministro ho dato il massimo impulso alla cooperazione giudiziaria con altri Paesi. Per costruire questo nuovo paradigma ho convocato gli Stati generali del contrasto alla criminalità organizzata. Sarà un percorso che ci offrirà l’occasione di ripensare molti strumenti, attraverso una partecipazione larga.
Proprio mentre stavamo andando on line, è scoppiato il caso ANAC e abbiamo allora chiesto al ministro Orlando di aggiornare i contenuti di questa intervista rispondendo a quest’ultima domanda.
Come è potuto accadere che nel nuovo codice degli appalti si cancellassero i poteri che consentivano all’ANAC di intervenire nei casi di irregolarità in via preventiva? Una svista?
Il Consiglio di Stato aveva mosso rilievi. Credo che eliminare la norma sia un errore a cui va posto rimedio. Anche il presidente Gentiloni si è espresso in tal senso. Quindi auspico che lo si faccia tempestivamente.
Fin qui il dialogo con il ministro Orlando.
La realtà però impone brusche accelerazioni e nell’intervista rilasciata nei giorni scorsi, non c’è stato ovviamente il tempo di affrontare la nuova minaccia del terrorismo internazionale, manifestatasi ancora nella serata di giovedì 20 aprile nel cuore di Parigi.
Il Guardasigilli italiano, però, ci sembra abbia ben chiaro che vada percorsa con maggiore convinzione la strada della cooperazione europea per sconfiggere non solo la globalizzazione delle mafie, ma anche la radicalizzazione delle marginalità e delle periferie che alimentano oggi la nuova minaccia del terrorismo di matrice islamica.
Chissà se l’Europa vorrà ripartire da qui, da una nuova intesa in materia di diritti e di sicurezza, di cittadinanza e migrazioni, per riscoprire le ragioni dell’unità.
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