Mafia e politica. Il sistema Parabita/1
Lo scorso 17 febbraio, con Decreto del Presidente della Repubblica, è stato sciolto il Consiglio Comunale di Parabita per infiltrazioni mafiose.
Tutto ha avuto inizio in una fredda notte, esattamente il 16 dicembre 2015, quando i Carabinieri del R.O.S. di Lecce, coordinati e diretti dal Maggiore Gabriele Ventura, hanno eseguito un’ordinanza di custodia cautelare nei confronti di ventidue indagati ritenuti affiliati o vicini al clan Giannelli, accusati a vario titolo di associazione di tipo mafioso, concorso esterno in associazione mafiosa, associazione finalizzata al traffico e allo spaccio di sostanze stupefacenti, estorsione aggravata dal metodo mafioso, detenzione illegale di armi comuni da sparo, corruzione per atti contrari ai doveri d’ufficio, corruzione di persona incaricata di pubblico servizio, danneggiamento seguito da incendio.
Il provvedimento custodiale era stato emesso dal GIP Alcide Maritati su richiesta del Procuratore Aggiunto Antonio De Donno. L’indagine, iniziata nel 2013, era stata denominata “Coltura”, dal nome della Madonna della Coltura protettrice di Parabita, comune epicentro dell’attività investigativa.
Nel mirino degli inquirenti, come detto, il clan Giannelli, storico sodalizio mafioso della Sacra Corona Unita, capeggiato dal boss ergastolano Luigi Giannelli, detto “Cici Morte” e da suo figlio Marco Antonio Giannelli, chiamato il “Direttore” dagli altri sodali. Il sodalizio era egemone a Parabita e nei comuni limitrofi di Casarano, Matino, Collepasso, Ugento, Alezio e Sannicola. Di spicco anche le figure di Vincenzo Costa, “responsabile di Matino” e quella di Cosimo Paglialonga “responsabile” di Collepasso.
A parlare dell’ascesa del Giannelli all’interno del clan e della sua personalità è stato proprio Massimo Donadei, collaboratore di giustizia che ha consentito di fare luce sulle dinamiche interne al clan e sulle sue attività, in un interrogatorio del 13 aprile 2012: «…Con riferimento all’area di Parabita intendo precisare che oltre ai ragazzi a me direttamente riconducibili di cui ho parlato nel precedente verbale, operano anche dei ragazzi legati a Marco Giannelli che, sebbene non affiliato, in quanto figlio del capo clan Luigi Giannelli ha l’autorità di avere un suo gruppo di ragazzi e di intervenire nelle scelte principali della vita del clan, la cui direzione operativa è però affidata a me. I ragazzi di Giannelli Marco, tutti non affiliati, sono Adriano ed Alessio Giannelli, Matteo Toma, fratello di Biagio, e Romano Emiliano. Tutti operano unicamente nel settore dello spaccio di stupefacenti. Con riguardo a Marco Giannelli, devo dire che circa una decina di giorni fa, mi ha avvicinato perché, in seguito alla pubblicazione della relazione annuale dell’anno giudiziario, era stato, per il secondo anno, tirato in ballo dal procuratore Motta. Il primo anno fece una smentita con il suo legale, avvocato Laterza, ma quest’anno intendeva fare qualche azione dimostrativa che servisse a mandare un messaggio ben preciso al procuratore Motta affinché capisse che quei paesi non dovevano essere tirati in ballo. Mi disse che aveva pensato di appendere alcuni striscioni con scritte ingiuriose sui cavalcavia delle principali arterie, quali la Lecce-Gallipoli, la Parabita-Casarano ed Alezio-Collepasso; oltre le scritte, alla base di questi striscioni ci sarebbero dovuti anche essere dei proiettili d’arma da fuoco. Mi riferì inoltre di avere parlato di questo progetto con Angelo Padovano, anch’egli a sua volta tirato in ballo nella relazione annuale, il quale, però, aveva risposto che sarebbe stato più corretto ignorare queste “provocazioni” e far finta di nulla. Posso riferire che Marco Giannelli, in alcune circostanze, si è rifornito di hashish direttamente dai Monteronesi, già a partire dal 2007-2008. Infatti, in talune circostanze, quando i miei canali di approvvigionamento ne erano sprovvisti, io mi rivolgevo a Marco che si recava con la moto a Monteroni insieme ad Angelo Padovano per approvvigionarsi di stupefacente, dato che entrambi hanno uno strettissimo rapporto con il figlio di Mario Tornese. Il rapporto tra Marco Giannelli e Angelo Padovano è strettissimo, tanto che in alcune circostanze ho capito che tra i due vi era una specie di cassa comune, nel senso che ogni qualvolta uno dei due necessitava di denaro, l’altro lo prestava. Marco Giannelli opera nel settore della sicurezza insieme ad Angelo Padovano, a persone di Nardò riconducibili al clan Dell’Anna e ad alcuni Monteronesi. A tal riguardo posso riferire che un parente del Giannelli, tale Cristiano, soprannominato MEROLA, forse anch’egli Giannelli di cognome, ha aperto un’agenzia di sicurezza ed opera in tale settore. In cambio riconosce a Marco, che gli procaccia il lavoro, un contributo mensile per il padre detenuto…».
Le indagini hanno appurato il ruolo apicale di Marco Antonio Giannelli all’interno del sodalizio, tanto da impartire direttive a Orazio Mercuri, “suo vero e proprio alter ego, oltre che persona di sua estrema fiducia”. Il Mercuri, oltre ad essere persona di fiducia del Giannelli, gli faceva anche da autista, considerato che a quest’ultimo era stata revocata la patente. All’interno del clan agiva anche Kurtalija Besar, un albanese residente da anni a Parabita e molto abile nel gestire il traffico di sostanze stupefacenti. Questi tre soggetti, al centro delle intercettazioni del R.O.S., “costituivano, dunque, il vero e proprio nucleo centrale e decisionale del sodalizio”, come si legge nell’ordinanza. Può sembrare curioso, ma Mercuri e Giannelli lavoravano come operatori ecologici e, quelle rare volte che il Giannelli aveva voglia di andare a lavorare, era proprio il Mercuri a passare da casa per accompagnarlo.
Dalle intercettazioni ambientali emergeva il grado di gerarchizzazione all’interno del sodalizio, con “doti” ovvero “gradi” assegnati in base all’esperienza criminale e alle capacità e ai meriti acquisiti. Un clan in cui il capo pretendeva il rispetto dei suoi sodali, se necessario usando anche le maniere forti: «Qua dobbiamo massacrarne qualcuno compa’, davvero Orazio…», diceva Giannelli al Mercuri che rispondeva: «Quando vuoi, te l’ho detto…andiamo… stanno facendo i porci…».
In un’intercettazione ambientale colta all’interno dell’autovettura del Mercuri, questi, insieme a Kurtalija e a Giannelli parlava di un attentato incendiario da fare all’interno di un’abitazione di una persona di cui non facevano il nome e che doveva essere “il primo della lista”. Un attentato da compiere con modalità simili a quelle viste nel film “Gomorra”: «Ti sei visto il film Gomorra? La prima puntata quando mettono fuoco dentro ad una casa…», diceva Marco Antonio Giannelli agli altri.
Il clan controllava il territorio e anche i semplici furti negli appartamenti, pur potendo essere compiuti da chiunque, non potevano essere perpetrati a danno di persone vicine all’associazione criminale, né dovevano creare allarme sociale per evitare che le responsabilità fossero attribuite agli appartenenti al sodalizio. Emblematica, riguardo al controllo del territorio, un’intercettazione tra Mercuri e Giannelli, in cui quest’ultimo parlava di un’estorsione da compiere ad un bar e affermava che era arrivato il momento di smettere di essere buoni e come gruppo avrebbero dovuto “purgare” tutti. Ma, cosa ancor più importante, non dovevano essere più loro ad andare a chiedere i soldi, bensì i commercianti stessi che dovevano recarsi da loro ad esigere “protezione”.
Il sodalizio era dotato di un fondo cassa in cui finivano i proventi delle attività criminose, su tutte il traffico e lo spaccio di sostanze stupefacenti, le estorsioni ed il recupero crediti operato con metodi violenti. A gestire il denaro ci pensava Marco Antonio Giannelli che teneva la contabilità dell’organizzazione aiutato da Orazio Mercuri.
In un dialogo tra il Mercuri e il Giannelli si confermavano gli stretti legami tra il clan Giannelli di Parabita e quello dei fratelli Tornese di Monteroni, già emersi in altre indagini. In questo caso, però, si evidenziava un certo risentimento nei confronti dei “Monteronesi” perché non si erano fatti più sentire e per la loro scarsa affidabilità dal punto di vista economico comprovata da qualche aiuto promesso e non mantenuto, a dire del Giannelli, che peraltro esclamava: «Dove ci sono quelli ci sono gli sbirri».
Il Giannelli pretendeva ed otteneva il cosiddetto “punto” sull’attività di spaccio di sostanze stupefacenti che veniva svolta sul “suo territorio” anche dagli stessi affiliati ai quali ne delegava il traffico dando loro una certa autonomia. Operando così, non aveva però piena contezza dei quantitativi di droga venduti e temeva che molti approfittassero di questa circostanza. Escogitò quindi uno stratagemma pensando di acquistare un grosso quantitativo di droga per distribuirlo esclusivamente agli affiliati interessati all’attività di spaccio, in modo da avere meglio sotto controllo le entrate e le uscite. A tal proposito contattò un suo amico brindisino che, a sua volta, aveva contattato un’altra persona che doveva dare il “via libera” all’operazione per fare arrivare lo stupefacente in breve tempo. Dalle intercettazioni emergeva che il punto chiesto dal Giannelli era di 5 euro al grammo su un grosso quantitativo di cocaina acquistato a 60 euro al grammo e venduto a 75 euro al grammo.
Il clan provvedeva all’assistenza economica dei detenuti e delle loro famiglie, il cosiddetto “pensiero”, di cui beneficiavano ovviamente solo gli appartenenti a questa consorteria criminale. Come accadeva, per esempio, per Donato Mercuri, già condannato per associazione mafiosa, quale componente del clan Giannelli fino al novembre del 2001, con sentenza della Corte di Appello di Lecce del 6 novembre 2006, divenuta irrevocabile.
Tra le pagine dell’ordinanza spunta un’intercettazione tra i fratelli Donato e Fernando Mercuri che riguarda l’omicidio della piccola Angelica Pirtoli, barbaramente massacrata nel lontano 20 marzo del 1991 insieme a sua madre Paola Rizzello. Quello che può definirsi il più efferato crimine compiuto dalla Sacra Corona Unita ha adesso una nuova chiave di lettura e una nuova verità. I due interlocutori commentano l’arresto del loro compaesano Biagio Toma, ritenuto uno dei due esecutori materiali del duplice delitto, per il quale Donato Mercuri è stato condannato all’ergastolo come organizzatore. Quest’ultimo, nel corso della conversazione, confermava che gli esecutori materiali dell’omicidio erano stati Biagio Toma e Luigi De Matteis ma aggiungeva che, a differenza di quanto dichiarato da quest’ultimo in sede di processo, era stato proprio il De Matteis, indicato nel dialogo con il suo soprannome “Morte”, ad uccidere la piccola Angelica, e non il Toma. L’orribile crimine, inoltre, sarebbe stato perpetrato nello stesso momento e non alcune ore dopo l’uccisione della mamma Rizzello Paola, come aveva dichiarato il De Matteis.
Donato:è stato MORTE… invece MORTE dice che è stato TOMA, hai capito?
Fernando: sì (incomprensibile) …
Donato: (incomprensibile )…
Toma: (incomprensibile) …
Donato: invece è all’inverso, è stato MORTE ad ammazzare la bambina … in quel momento stesso…
Fernando: tutto in quel momento hanno fatto … tutto … (incomprensibile) …
OMISSIS
Questo colloquio è avvenuto in carcere tra i fratelli Mercuri il 2 aprile 2015 e dimostra l’appartenenza di entrambi al clan mafioso. La Procura ha chiesto e ottenuto la trascrizione dell’intercettazione ambientale che è stata così acquisita nel processo che attualmente si celebra in Corte d’Assise a carico di Biagio Toma, anch’egli ritenuto dagli inquirenti responsabile esecutore del doppio orribile crimine.
Per il duplice omicidio di Paola Rizzello e della piccola Angelica Pirtoli sono stati già condannati all’ergastolo, con sentenza emessa il 26 marzo 2001 dalla Corte d’Assise di Lecce, Luigi Giannelli come mandante, Anna De Matteis Cataldo come istigatrice e Donato Mercuri come organizzatore. Per avere eseguito il delitto è stato condannato Luigi De Matteis, divenuto collaboratore di giustizia.
Un altro soggetto al centro delle indagini è Vincenzo Costa, detto “Cavolata”, secondo gli investigatori appartenente al sodalizio mafioso per conto del quale viene ritenuto responsabile delle attività illecite svolte a Matino. Dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Massimo Donadei, si scopre che il Costa è molto attivo nel traffico delle sostanze stupefacenti ma “poco avvezzo a contribuire al sostentamento in carcere dei detenuti”, motivo per il quale era stato dato l’ordine dai vertici del clan di eliminarlo. Circostanza che comunque non si è poi verificata.
La presenza sul territorio del clan Giannelli, capeggiato da Marco Antonio Giannelli, è comprovata anche dalla capacità di intimidazione diffusa. La più importante attività praticata dal gruppo, cioè lo spaccio di sostanze stupefacenti, avveniva tramite gruppi di spacciatori. Le controversie che nascevano per il mancato pagamento di forniture di droga erano risolte usando metodi violenti o toni intimidatori che davano buoni risultati. Questi comportamenti costituivano delle operazioni di “recupero crediti”. Illegali, ovviamente.
I sodali temevano di essere intercettati e usavano particolare cautela nelle conversazioni telefoniche, a riprova del loro contenuto illecito. Decisivi per le indagini sono risultati i colloqui captati all’interno dell’autovettura di Orazio Mercuri e il dialogo avvenuto in carcere tra i fratelli Donato Mercuri e Fernando Mercuri avvenuto il 2 aprile 2015. Gli indagati, per comunicare tra loro, usavano molto i social network come Facebook e l’applicativo WhatsApp.
Un’altra figura interessante emersa dalle indagini è quella di un infermiere, Lorenzo Mazzotta, detto “Ivan”, in servizio presso il vecchio ospedale “Vito Fazzi” di Lecce, amico e compaesano di un altro indagato, Fernando Cataldi. Il Mazzotta, grazie ai suoi riferimenti presso il SERT di Lecce, si adoperava per sostituire i campioni di urina del Giannelli, contaminati dall’uso abituale di sostanze stupefacenti e cercava di aggirare una serie di ostacoli di natura oggettiva e amministrativa per accelerare il rilascio della patente allo stesso Marco Antonio Giannelli, in quanto gli era stata revocata dalla Prefettura di Lecce.
Particolarmente importante è l’intercettazione del 25 novembre 2014 captata a bordo dell’auto di Orazio Mercuri mentre parlava con Fernando Cataldi e Marco Antonio Giannelli. In questo caso emergeva forte il rancore dei tre nei confronti del collaboratore di giustizia Massimo Donadei e di sua madre, colpevole di intrattenere ancora contatti telefonici con il figlio. Un odio che spingeva il Cataldi a ipotizzare un attentato ai danni della famiglia Donadei. In particolare le attenzioni si concentravano sulla madre di quest’ultimo tanto che il Giannelli affermava che se nulla era stato ancora fatto era per il rispetto che portava agli altri figli, Andrea, Donato e Claudio, questi ultimi due detenuti da molto tempo e anch’essi affiliati al clan Giannelli. Marco Antonio Giannelli sosteneva che Andrea Donadei gli aveva dato “carta bianca” per uccidere sua madre, cosa che comunque non era nelle intenzioni del Giannelli.
Di straordinaria rilevanza per il valore simbolico e per la rappresentazione di un elevato livello di mafiosità è il dialogo ascoltato dai Carabinieri del R.O.S. la mattina del 22 gennaio 2015, quando Orazio Mercuri e Marco Antonio Giannelli sono in macchina e commentano l’ampio risalto dato dai giornalisti della televisione e della carta stampata alla notizia dell’arresto del loro compaesano Biagio Toma, accusato di essere l’autore dell’omicidio della piccola Angelica Pirtoli e della sua mamma Paola Rizzello. Le ire dei due si abbattevano su Don Angelo Corvo che aveva osato invocare giustizia chiedendo che fossero individuati gli esecutori materiali del duplice omicidio e non solo i mandanti. Il Giannelli, furibondo, manifestava la sua intenzione di “massacrarlo” subito, ma veniva dissuaso dal Mercuri che lo consigliava di temporeggiare per evitare di attirare le attenzioni degli investigatori su di loro.
Marco: lo sai di chi è la colpa no?
Orazio: DON ANGELO …
Marco: mannaggia i morti di sua madre … questo cornuto …
Orazio: gliel’ho detto a loro, lui è … da lui è partito il tutto … l’anno scorso ti ricordi, ti ricordi l’anno scorso? Voleva sapere … ha detto sì, sono stati … i mandanti …
Marco: aspetta che passa poco poco, gli faccio buttare il sangue …
Orazio: lui ha fatto tutto …
Marco: lo so … lui è, che poi lui intervistavano …
Orazio: c’è anche lui sul Quotidiano…
Marco: (incomprensibile) lo hanno intervistato anche in chiesa, dentro la chiesa, questo lurdo (bestemmia) …
OMISSIS
Marco: questo cornuto … compà (incomprensibile) DON ANGELO sta scassando la minchia ogni giorno …
Orazio: da lui è partito il tutto (incomprensibile) …
Marco: con lui (incomprensibile) vorrei dargli proprio con le mani …
Orazio: no adesso … adesso risultano MA’ …
Marco: lo voglio picchiare (bestemmia) con le mani lo voglio massacrare, i morti di sua madre …
Orazio: adesso come adesso, chi va a toccarlo …
Marco: (incomprensibile) … però (bestemmia) questo vuole che decolli questa cosa … eh, va beh, perché dovrebbero prendersela con noi? Dove sta scritto?Perché?
Orazio: vengono a rompere il cazzo ogni giorno, poi vedi …
Marco: dici?
Orazio: sì …
OMISSIS
Il clan era molto aggressivo e deciso a non fermarsi davanti a niente e a nessuno e metteva nel suo mirino anche l’Appuntato Scelto dei Carabinieri Giovanni Adamo, in servizio presso la Stazione dei Carabinieri di Parabita e poi trasferito per motivi precauzionali. Il militare, nella conversazione intercettata, veniva chiamato “Barbetta”, a causa della sua folta barba. La mattina del 18 marzo 2015 il Giannelli si trovava in compagnia di Besar Kurtalija, Orazio Mercuri e un altro soggetto sconosciuto. La rabbia del Giannelli nei confronti dell’Appuntato Scelto Giovanni Adamo derivava dal fatto che il Carabiniere si era “permesso” di seguire un’amica del Giannelli di nome Francesca.
Il capitolo più importante di questa vicenda è, sicuramente, quello riguardante i rapporti del clan Giannelli con Giuseppe Provenzano, all’epoca delle indagini Assessore al Comune di Parabita con delega ai Servizi Sociali e al momento dell’arresto Vicesindaco e Assessore allo Sport.
Le indagini hanno documentato “l’esistenza di un vero e proprio ‘patto politico-mafioso’, in forza del quale il Provenzano, pur non essendo inserito organicamente nel sodalizio mafioso, di fatto si è dimostrato a completa disposizione di esso fornendo un contributo specifico, consapevole e volontario, oltre che continuativo ai fini della conservazione e del rafforzamento delle capacità operative del gruppo”, scrive il GIP nell’ordinanza.
È stato facile per gli investigatori risalire all’identificazione del Provenzano, in quanto, nelle intercettazioni, Marco Antonio Giannelli, Orazio Mercuri, Fernando Mercuri e Fernando Cataldi lo indicano con il suo nome e cognome specificando la carica rivestita all’interno dell’Amministrazione Comunale di Parabita.
Di collusioni e connivenze tra il clan Giannelli e l’Amministrazione Comunale di Parabita, con particolare riferimento alle elezioni amministrative del 2010, aveva parlato il collaboratore di giustizia Massimo Donadei: «Durante le elezioni amministrative del 2010 il nostro gruppo ha appoggiato l’attuale sindaco Alfredo Cacciapaglia e la sua giunta. In particolare abbiamo sostenuto Biagino COI e Tommaso PROVENZANO. Dell’elezione di quest’ultimo mi sono interessato io direttamente in quanto ci eravamo accordati che il Provenzano avrebbe fatto la richiesta per far lavorare nella sua impresa edile mio fratello Claudio, all’epoca dei fatti detenuto, ed inoltre avevamo concordato che il clan avrebbe collocato gli affiliati all’interno di una serie di locali commerciali di cui era prevista l’apertura. Biagino COI, invece, è stato supportato in quanto nostro parente ed infatti, possiamo dire, che lui è l’uomo del clan all’interno dell’amministrazione e si fa portavoce di tutte le nostre istanze. Mio fratello Leonardo fu, invece, avvicinato direttamente da Alfredo Cacciapaglia che gli promise in caso di elezione dei posti di lavoro all’interno dell’impresa per la raccolta di rifiuti che opera su Parabita, cosa che effettivamente si è concretizzata ed infatti, vi lavorano Marco GIANNELLI, Orazio MERCURI, Antonio CORONESE e tale COLIZZI, figlio di un Appuntato dei Carabinieri che fa servizio a Sannicola. Inoltre, Alfredo CACCIAPAGLIA promise a mio fratello Leonardo la gestione del bar del Santuario che però non fu possibile assegnargli, ragion per cui si preoccuparono di parlare direttamente con il gestore del bar “Planet” di Parabita, sito di fronte al Comune ed a fianco all’Ufficio postale perché lasciasse la gestione a condizioni convenienti a mio fratello. Inoltre, come già era successo con la precedente amministrazione ogni anno a mio fratello Leonardo gli viene assegnata la sicurezza nel giorno della “notte bianca” con il guadagno di 5.000 euro …». Queste dichiarazioni sono state riportate dal Tribunale di Lecce nella sentenza del processo scaturito dall’operazione “Coltura”, emessa il 12 ottobre 2016, per dimostrare lo spessore criminale dell’organizzazione mafiosa e la sua capacità di inquinare l’Amministrazione Comunale.
Le intercettazioni del R.O.S. hanno corroborato le dichiarazioni di Donadei confermando il coinvolgimento del Provenzano negli affari illeciti del clan. Il suo ruolo di fiancheggiatore del sodalizio mafioso è stato appurato dalle indagini verso la fine del mese di febbraio 2015, più esattamente la mattina del 28 febbraio quando, durante un colloquio tra Marco Antonio Giannelli, Fernando Cataldi e Orazio Mercuri, questi faceva riferimento ad un’imminente gara d’appalto, o comunque al rinnovo del servizio raccolta rifiuti, cui era interessata la ditta presso la quale lavoravano il Giannelli e lo stesso Mercuri come operatori ecologici. Il Giannelli ne prendeva atto e chiedeva al Mercuri di rintracciare tale “Peppe” e di dirgli che avrebbe dovuto far assumere Fernando Cataldi, per poi aumentare in seguito le ore lavorative del Mercuri e dello stesso Giannelli e portarle da quattro a sei, e di aggiungere che, in caso contrario, lo stesso Giannelli si sarebbe arrabbiato e non lo avrebbe fatto più vivere tranquillamente.
I Carabinieri del R.O.S., il 4 aprile 2015, avevano la certezza che il “Peppe” o “Peppino”, di cui gli affiliati al clan parlavano nelle intercettazioni era il Provenzano. Un episodio confermava in maniera lampante la convergenza di interessi tra politica e mafia. In una conversazione, Marco Antonio Giannelli chiedeva spiegazioni a Orazio Mercuri in merito a una discussione che era avvenuta qualche giorno prima e che riguardava Antonio Martignano, loro collega di lavoro, Fernando Mercuri, fratello di Orazio, e Giuseppe Provenzano. Il tutto nasceva dal fatto che Fernando Mercuri doveva recarsi a Sulmona per trovare suo fratello Donato che era detenuto in carcere. Per affrontare questo viaggio aveva chiesto “un contributo” di 200 euro al Provenzano. Questi aveva sempre rimpinguato le casse del sodalizio senza mai lamentarsi. Però, in questa occasione, si era risentito per una minaccia proferita nei suoi confronti da parte di Fernando Mercuri, cioè quella di non sostenerlo alle elezioni amministrative che ci sarebbero state qualche mese dopo a Parabita. In reazione a ciò, il Provenzano diceva al Giannelli quella che potrebbe essere considerata la frase simbolo di tutta l’inchiesta: «Avete perso il santo in Paradiso». Un’espressione che testimonia i legami tra il clan Giannelli e il Provenzano “nella sua veste di amministratore pubblico, appartenente allo stesso ‘partito’ del sindaco Cacciapaglia e di altri amministratori quali il detto Coi, già descritti dal collaboratore Donadei come uomini politici assai vicini al clan Giannelli e tutori degli interessi di questo e dei suoi uomini in ambito amministrativo”, come evidenziato dal GIP nell’ordinanza. Emergeva così un preciso accordo che prevedeva il persistente impegno del clan Giannelli nel supportare la campagna elettorale del Provenzano che si metteva a disposizione del sodalizio per ogni evenienza che avesse riguardato i rapporti con l’Amministrazione Comunale.
Un altro dialogo tra Orazio Mercuri e Marco Antonio Giannelli dimostra la continuativa “disponibilità” del Provenzano nei confronti del sodalizio. Ritornando a parlare della discussione da questi avuta con Fernando Mercuri, il Giannelli manifestava l’intenzione di non perdere gli utili servigi del Provenzano, con il quale vi era uno scambio reciproco di favori. A tal fine pensava di far passare qualche settimana affinché si calmassero gli animi e poi organizzare una cena per ricomporre la frattura tra i due. Comunque, Giuseppe Provenzano aveva manifestato la volontà di continuare a versare denaro nelle casse del clan e Giannelli invitava l’amico ad accettare il denaro nel caso in cui glielo avesse consegnato.
Emblematica del patto mafia-politica una foto pubblicata sul social network Facebook e divenuta di pubblico dominio prima che fosse cancellata. La foto documentava la presenza di Marco Antonio Giannelli ad una festa privata insieme a Giuseppe Provenzano al fine di pubblicizzare il candidato al Consiglio Regionale Roberto Coi della lista “Noi Salvini”. Questa foto trasmetteva alla popolazione il chiaro messaggio che il Provenzano e il candidato Coi, da lui sostenuto, fossero “sponsorizzati” dall’associazione mafiosa egemone sul territorio, rendendo evidente il potere del sodalizio, in grado di controllare “pezzi” importanti delle istituzioni pubbliche, inequivocabilmente riverenti e “riconoscenti” nei confronti del clan.
La contiguità del Provenzano con il sodalizio mafioso viene confermata anche da un colloquio in carcere tra Fernando Mercuri e suo fratello Donato, avvenuto il 2 aprile 2014. In questa circostanza Fernando Mercuri aveva fatto riferimento al proprio figlio che lavorava nel settore della nettezza urbana grazie all’interessamento di Giuseppe Provenzano, all’epoca dei fatti Assessore ai Servizi Sociali del Comune di Parabita.
OMISSIS
Donato: (incomprensibile) …
Fernando: PROVENZANO c’è e basta!
Donato: Che cosa è? Consigliere? Cosa è?
Fernando: Assessore …
Donato: Assessore a cosa?
Fernando: Ai Servizi Sociali … ai Servizi Sociali …
OMISSIS
Nelle elezioni amministrative tenutesi a Parabita nel 2010, Giuseppe Provenzano ha preso ben 208 voti ed è stato il secondo candidato più suffragato nella sua lista denominata “Uniti per Servire”, preceduto soltanto dal candidato Biagino Coi con 242 voti.
Un commento del Giannelli sulla sua bacheca Facebook, il 2 giugno 2015, confermava il supporto fornito dal suo clan al Provenzano nelle ultime elezioni comunali.
“Andate a zappare tutti la vittoria è nostra”, scriveva Marco Antonio Giannelli, soddisfatto. Un’esternazione pubblica che metteva di fatto il marchio della Sacra Corona Unita sulla vittoria elettorale e, quindi, sull’istituzione comunale “conquistata”.
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