Di Matteo alla DNA: meglio tardi che mai?
Alla fine il Consiglio Superiore della Magistratura arriva a prendere la decisione naturale, o almeno, quella che, secondo logica, avrebbe dovuto prendere fin dall’inizio: assegnando cioè al sostituto procuratore palermitano Nino Di Matteo uno dei posti messi a concorso per la Direzione Nazionale Antimafia.
E lo fa con voto unanime e riconoscendo al magistrato il massimo del punteggio in ragione delle qualità professionali, definite “ottime”, e del “solido e vasto bagaglio di esperienza” che Di Matteo, nel corso dei venticinque anni trascorsi prima in Procura a Caltanissetta e poi a Palermo, si è costruito nel contrasto a Cosa nostra e alle sue tante ramificazioni. “Un impegno gravoso e costante”: questa la definizione del percorso professionale trascorso nelle trincee delle procure siciliane che è stata data dallo stesso giudice.
Si chiude così con l’approdo a Roma, che verrà definito nei prossimi due mesi, una vicenda tormentata che aveva visto in passato il pm del processo sulla trattativa Stato-mafia chiedere di andare alla Procura nazionale antimafia, in ragione dei meriti acquisiti sul campo e di una nomina a chiusura di un regolare concorso per i posti banditi. Di Matteo, infatti, aveva sempre chiesto di poter trasferirsi a Roma per ragioni professionali e non per avere maggiore protezione, quella protezione che lo Stato sembrava non essere in grado di garantire sul suolo palermitano, in ragione delle tante minacce di morte che gli erano arrivate.
Con l’avvenuta nomina si chiude un capitolo doloroso per lo stesso Di Matteo che, in passato, aveva presentato ricorso al Tar contro la bocciatura subita in passato dallo stesso CSM.
Certo, resta più di un dubbio sul fatto che alcune delle qualità riconosciute oggi in capo al magistrato palermitano – tra cui “ineguagliabile spirito di sacrificio”, “impareggiabile tenacia”, “capacità di coordinamento e impulso investigativo”, “gestione di complessi e delicati procedimenti” – non siano state in passato piuttosto gli elementi che abbiano portato a rallentare il naturale percorso professionale dello stesso Di Matteo.
A pensar male si fa peccato, ma qualche volta si azzecca pure e del resto è Di Matteo il primo a rendersene conto quando esterna la sua amarezza ai microfoni: «Sono convinto che in passato ci sia stato qualche veto o pregiudizio e che qualche esponente istituzionale ha posto, in qualche modo. Veti o pressioni affinché quella mia domanda non fosse accolta. E’ questo il mio pensiero, basato su alcuni elementi, anche se mi auguro che ciò non sia accaduto».
In queste ore il magistrato non ha fatto mistero di quanto sia stato difficile arrivare ad una scelta simile, ma ci ha tenuto anche a sottolineare come non si tratti di un abbandono, quanto piuttosto della volontà di continuare ad occuparsi di mafia, unitamente alla constatazione che per fare questo se ne sarebbe dovuto andare da Palermo. Infatti, l’impegno a tempo pieno su processi delicatissimi, quale quello riguardante la trattativa Stato-mafia, mal si conciliava con la necessità di seguire altri procedimenti di minore entità, in ragione dei carichi di lavoro di una normale procura.
La necessità inderogabile di cambiare ufficio dopo tanti anni per Di Matteo non è stata quindi una resa, la presa d’atto di essere chiuso dal punto di vista professionale se fosse rimasto a Palermo, quanto piuttosto la volontà di “dare un contributo seppur con un ruolo diverso, anche nel percorso di approfondimento per arrivare alla verità sulle stragi, su quanto avvenuto nel 1992-1993, su rapporti alti della mafia con la politica ed il potere in generale”.
Se da un lato Di Matteo si augura che la sua esperienza sulle cosche e sui rapporti che hanno con la politica e le istituzioni possa essere utile anche nel suo prossimo ruolo, dall’altro rilancia la sua determinazione nel voler arrivare a fondo con il processo sulla trattativa, al quale ha già chiesto di rimanere applicato, cogliendo una disponibilità manifestata in tal senso, tanto del procuratore di Palermo Francesco Lo Voi, quanto del procuratore nazionale antimafia Franco Roberti.
A tale riguardo Di Matteo richiama in causa il rispetto delle regole e delle procedure previste per l’applicazione ai processi e alle indagini di magistrati della Pna; non ammette scorciatoie o eccezioni nemmeno in questo caso: «Questo lo reputo come un dovere in quanto io, assieme al dottor Ingroia, ho iniziato queste indagini. Con i colleghi Teresi, Del Bene e Tartaglia in questi anni abbiamo attraversato un percorso difficile, irto di ostacoli, anche strumentalmente posti lungo il nostro cammino. E reputo serio e doveroso tentare di concludere il mio sforzo. Questa dunque non è una fuga ma una scelta per poter continuare a lavorare in maniera continua».
Insomma, con buona pace di chi pensava ad un magistrato ridimensionato e ridotto a più miti consigli, a seguito delle bocciature istituzionali subite, pronto a trasferirsi anche per togliere l’eccezionale pressione in capo alla propria famiglia dopo le ripetute minacce subite nel corso degli ultimi anni, invece Di Matteo si prepara a trasferirsi negli uffici della Dna in via Giulia con un carico di determinazione e aspettativa che promette di fare scintille.
Forse una scossa salutare anche per i colleghi della Procura nazionale, per operare insieme quel necessario rilancio dell’attività d’analisi, impulso e coordinamento che spetta in capo a tale importante struttura, pur retta egregiamente in questi anni dal procuratore nazionale Franco Roberti. Un rilancio costante e continuo che si rende quanto mai necessario, alla luce dei continui cambiamenti di pelle del serpente mafioso.
Lontano dai riflettori palermitani, Di Matteo si allontana dalle polemiche con i palazzi romani, paradossalmente proprio quando si riduce sensibilmente lo spazio da loro in termini di chilometri.
Chissà che questo nuovo osservatorio dal cuore della Capitale d’Italia non regali spunti inediti all’attività investigativa del magistrato che, indagando sulle stragi di Palermo, arrivò a duellare a distanza anche con il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, fino al conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato che fu sollevato davanti alla Corte Costituzionale e, poi, vinto dal Quirinale.
Procedimenti disciplinari, bocciature professionali si accompagnarono alle ripetute attenzioni, non certo benevoli, riservategli dai vertici di Cosa nostra negli anni recenti. Ricordiamo ancora quando il boss corleonese Totò Riina, intercettato nel 2014 all’interno del carcere di Opera, disse che a Di Matteo bisognava far fare “la fine del tonno”. E per quale ragione mai Riina, sul cui capo gravano numerosi ergastoli, dovrebbe avercela avuta a morte così tanto con il magistrato del processo sulla trattativa?
Comunque sia andata fino ad ora, è chiaro che la nomina di Di Matteo alla Dna è una buona notizia anche se ci sarebbe piaciuta averla qualche anno fa. Ecco la ragione di quel punto di domanda nel titolo.
Nino Di Matteo ai microfoni di Radio Radicale
TV7 Rai1, Intervista a Nino Di Matteo
Di Matteo e via D’Amelio nel giorno di Provenzano
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