Post-verità: istruzioni per l’uso
Dal punto di vista strettamente etimologico, non ha molto senso: “post-verità” implicherebbe che c’è stata una verità e poi è successo qualcosa che ne ha modificato o alterato il senso. Tipo, “post-parto” , “post-trauma”, “post-laurea”. Soltanto che parto, trauma, laurea sono fatti realmente accaduti, quindi certi e immutabili. Il “post”, cioè il dopo, è variabile ma non intacca il fatto che lo precede.
Quindi, nel caso della “post-verità” siamo in presenza di un’espressione che sta diventando di gran moda ma che, appunto nella sua essenza etimologica, è fuorviante. Di verità, nella “post-verità”, non c’è ombra. Magari di verosimiglianza, ma neanche sempre. Il che non significa che la “post-verità” non esista e che non meriti l’attenzione che sta riscuotendo. Però forse si dovrebbe inventare un altro modo per descriverla. Il fenomeno di cui si dibatte non parte da un fatto assodato (verità) che poi subisce distorsioni tali da renderlo falso (post). Anzi, il fenomeno in questione nasce da una “non verità”, con tutte le sfumature del “non vero”, cioè non controllato né verificato, da cui si dirama in sequenza il “post”.
Comunque, tecnicamente si tratterebbe di questo: “I fatti oggettivi stanno diventando meno influenti nel formare l’opinione pubblica rispetto sia agli appelli alle emozioni primarie (odio, rancore, amore, paura) sia alle credenze personali”.
La scala dovrebbe più o meno essere questa: falso, inverosimile, verosimile, vero. Fuori scala, appunto, la post-verità. Che quindi non è propriamente una bugia, che attraverso soprattutto i social media diventa virale ed espandendosi cambia radicalmente stato diventando vera o verosimile. Se ho capito qualcosa della faccenda, dovremmo usare “post-verità” come il neologismo che descrive un fenomeno sociale di freschissimo conio e rapidissima presa. Tanto è vero che da qualche mese giornali e tv ne trattano copiosamente, con dotti e quindi complicati interventi. Tanto è vero che in Germania è stata scelta come parola dell’anno (post-faktisch, ovvero post-fattuale, allocuzione forse meno intrigante ma più precisa). Tanto è vero che anche oggi siamo qui a occuparcene.
Con una certezza, almeno per parte mia. La certezza è che la gente comune, le persone per le quali generalmente scriviamo o raccontiamo, in stragrande maggioranza non sa di cosa si tratta e perché dovrebbe interessarsene. Ne consegue, seconda certezza personale, che quando una persona comune si imbatte in un titolo dove compare la parola totem del momento, “post-verità” appunto, gira pagina o cambia canale perché ha l’impressione (errata ma incontestabile) che la cosa non la riguardi. Ma purtroppo non è così: quel binomio, per quanto di non facile comprensione immediata, è una delle chiavi interpretative più formidabili per capire come si formano i convincimenti, anche politici, di comunità sempre più numerose e sempre più imprevedibili. Se cito l’elezione di Trump o l’esito della Brexit e persino quello del nostro referendum costituzionale, è probabile che quella specie di Tac sociale, di apparecchio radiografico del profondo, ci aiuti a capire meglio esiti elettorali giudicati alla vigilia variamente improbabili.
Ma se la post-verità è dunque tema cruciale per capire un po’ meglio questo mondo in via di stravolgimento, abbiamo un problema non da poco. Lo dicevo prima: scommettiamo che se usciamo di qui e facciamo 100 interviste a campione su cos’è la post-verità, 90 intervistati (e sto larghissimo) non sapranno rispondere?
E qui entra in campo la prima osservazione a uso e consumo di chi fa il mestiere del giornalista. I quattro diritti fondamentali del lettore (o spettatore etc): non sapere, non capire, non ricordare e, da ultimo, il diritto di dialogare. Per onorarli, questi inalienabili diritti, bisogna essere umili e operosi (francescani delle notizie), qualità che nella categoria onestamente scarseggiano. E in più bisognerebbe sviluppare un sentimento, una sensibilità, poco incoraggiata nelle scuole per questa professione o negli stessi giornali: la capacità di ascoltare, condizione necessaria per capire i bisogni informativi dell’interlocutore, e quindi, essendo umili e operosi (francescani, appunto), provare a soddisfarli.
Dunque, ricominciamo. Prima della post-verità (fenomeno sociale) c’è quasi sempre una pre-bugia (vizio antico). Obama non è nato in America. Hillary ha una malattia mentale degenerativa. Papa Bergoglio voterebbe per Trump. Con la Brexit miliardi di sterline “regalate” all’Europa saranno immediatamente riconvertite in fondi per la sanità pubblica.
Notizie con vario grado di verosimiglianza ma tutte false, anche se tutte, o quasi, molto più seducenti della NOIOSA VERITA’. La novità è che la “rete” le sceglie proprio per questo, perché più easy, più hot, rispetto all’appunto noiosa verità, e quindi le spara a velocità della luce in territori sconfinati, dove questi lapilli di menzogna incendiano in poche ore foreste di anime e di cervelli.
Perché queste anime e cervelli si lascino incendiare, oggi molto più rapidamente e pervasivamente che in qualsiasi altro periodo storico, l’ho trovato spiegato bene in un articolo dell’antropologo Marino Niola su Repubblica, di cui riporto alcuni passi: “Stiamo transitando dalla civiltà della ragione alla civiltà dell’emozione. E la prova è proprio il dilagare della post-verità. Dominata dai social media, che sostituiscono l’oggettività con l’opinione, l’attendibilità della fonte con la fascinazione dell’impatto emotivo della notizia, o presunta tale”, la scena, continua Niola, viene continuamente stravolta da ondate di narrazioni senza prove e senza filtri. Nell’orizzontalità della rete, priva per natura di gerarchia e resa reattiva ad ogni impennata viscerale dalla connessione permanente (in effetti, siamo tutti e sempre connessi), queste favole favolose diventano fatti puri e semplici (hanno detto che è così, in tantissimi l’hanno condiviso e quindi deve essere proprio così) e determinano conseguenze non tutte pure e non tutte semplici.
Duemilaquattrocento anni fa, Aristotele diceva che quando in una società viene meno ogni principio condiviso di oggettività e di autorevolezza, di verifica razionale dei fatti, la democrazia si gonfia e degenera in demagogia.
La “post-verità” è il dilagare del falso per vero, o più propriamente di “fattoidi” che diventano fatti e quindi verità, “verità” ancora più attraenti perché “nascoste” dai media tradizionali e messe invece a disposizione del grandissimo pubblico da fonti libere e ribelli al sistema. Il suo affermarsi è uno degli indicatori più sbalorditivi della tempesta culturale che stiamo attraversando. Una rivoluzione paragonabile a quella della stampa, e prima ancora della scrittura.
Appena 10 anni fa (rifletteteci bene, 10, un’inezia temporale), il settimanale Time, fiutando i tempi, sceglieva come persona dell’anno uno specchio e la scritta YOU. “Yes, You. You control the INFORMATION AGE. Welcome in a new world”. Facebook aveva allora appena 2 anni. Oggi è il re di quel “new world”, circondato di altri regni (da Google ad Amazon, da Apple a Microsoft) che hanno ormai cambiato non solo gli assi portanti del nostro modo di informarci e di comunicare, non solo le gerarchie delle aziende di maggior valore, ma tutto il nostro tempo e l’uso che ne facciamo. E per “abitare questo tempo”, come diceva Heidegger, o anche solo per raccontarlo, come sono chiamati a fare i giornalisti, è complicato prescindere dal fatto che gli smartphone, cioè i cellulari a connessione perpetua, sono ormai 5 miliardi ed è facile prevedere che entro la fine di questo decennio raggiungeranno e supereranno il totale degli abitanti della Terra. Così come non è marginale prendere atto che ormai un italiano su due ha un profilo Facebook. Dalla galassia Gutemberg (1450) siamo passati alla galassia Zuckerberg, e niente, ma proprio niente, sarà più come prima.
Sugli effetti di questo cambio repentino di civiltà si potrebbe discutere per ore. Limitiamoci agli ambiti che hanno a che fare con il nostro tema, l’ormai famosa e famigerata “post-verità”.
Uno degli effetti più evidenti di questa rivoluzione conclamata (non più in corso ma già in atto) è che le notizie, di qualsiasi tipo siano, hanno vita brevissima. Siamo entrati in una specie di acceleratore di particelle, come quello del Cern, dove tutto procede a velocità incomprensibile e “inumana”, nel senso che sta già modificando geneticamente le nostre percezioni e quindi noi stessi.
Mi ha molto colpito, come immagino tutti voi, la tragedia di Pontelangorino, tra Ferrara e Comacchio: un ragazzino di 16 anni chiede a un amico di 17 di fargli fuori i genitori perché “rompono” con la storia che non va bene a scuola. L’amico, per 80 euro (“ma l’avrei fatto anche gratis”, dirà poi), li ammazza a colpi d’ascia tutti e due (3 squarci al padre, 6 alla madre). Bene, anzi malissimo. Comunque è successo, a due ragazzini italiani, dalla vita normalissima, pochissimi giorni fa, il 13 gennaio 2017. E nessuno ne parla più, come se si fosse trattato di un incidente stradale (salvo in queste ore, dove il buco del movente mancante sarebbe riempito, ma la cosa olezza appunto di “post-verità”, da una presunta relazione gay tra i due minorenni, osteggiata e quindi punita). Gennaio 2017: già archiviato. Mentre è ancora nella memoria triste del Paese la storia, quasi analoga, di Pietro Maso, che risale al preistorico 1991.
In quella stessa memoria collettiva è incisa a fuoco la scena del pozzo di Vermicino, con il piccolo Alfredino Rampi che scivola dalle mani dell’ultimo soccorritore, Angelo Licheri: era il 1981, tre giorni e tre notti che angosciarono l’Italia. E 36 anni dopo, al solo nominare il posto, ancora l’angosciano. Dubito fortemente che tra 35 anni ricorderemo la strage dell’hotel di Rigopiano, i sommersi, i salvati, i soccorritori tra le muraglie di neve. Tutto verrà dimenticato molto ma molto prima, spinto via da altre particelle dell’acceleratore, e quindi risepolto.
Succede la stessa cosa in politica. Beppe Grillo, guru e leader dei Cinquestelle, affida al suo blog il pensiero che il mondo di oggi ha bisogno di uomini forti come Trump e Putin (salvo poi, nel giro di poche ore, sfumare la pensata, che infatti il giorno dopo, sui quotidiani, si riduce a boutade mentre avrebbe un valore di collocazione politica di portata non indifferente). La stessa cosa si ripete col balletto, un po’ sconcertante, delle alleanze europee: il capo grillino molla l’ultranazionalista Farage per passare coi liberali di Alde, ma questi gli rifiutano l’ingresso e allora lui fa retromarcia accusando un non meglio identificato ”establishment” di aver fatto saltare di proposito l’accordo.
Uno schiaffo del genere determinerebbe quanto meno l’apertura di una crisi di leadership. Non ora, però, e non qui. La vicenda viene raccontata, fugacemente commentata, e poi archiviata.
Avanti un’altra, avanti un altro. Il problema, ovviamente, non è Grillo. Mettete chiunque altro al suo posto e il risultato non cambia. Le notizie, in cronaca come in politica e in generale in ogni altro campo d’interesse, perdono peso molto rapidamente. Si consumano come i fiammiferi di una volta: appena spento il breve fuoco, si gettano via. E questo non lasciare traccia, lascia quotidianamente spazio a un’infinità di altre cose che, a loro volta, non lasceranno traccia e verranno sostituite da altre cose ancora, destinata alla stessa corta vita, come la spuma delle onde.
E’ evidente che in uno schema come questo, dove tutto avviene in orizzontale e in nevrotica successione, e dove per converso quasi niente scende in profondità e lascia segni duraturi nelle coscienze e nelle memorie collettive, lo spazio da occupare con approssimazioni enfatiche della realtà è immenso. Nel frullatore del NUOVO MONDO preconizzato da “Time” la disinformazione ha le stesse possibilità di diventare virale dell’informazione certificata e corretta. Chi vince non è chi si avvicina di più alla realtà di un accadimento (con fatica, tempo, sapienza e dedizione) ma chi colleziona il maggior numero di “mi piace”, e nel minor tempo possibile.
La NOIOSA VERITA’ è come il Grillo parlante di Pinocchio. Vuoi mettere la botta di vita che ti garantiscono il Gatto e la Volpe? Il primo parla alla testa ed eventualmente all’anima. I secondi parlano alla pancia. E in questi tempi vincono facile.
CHE FARE?
Come uno scoglio non può arginare il mare, non saranno leggi restrittive ad hoc, o sussulti di post-coscienza dei padroni dei social media, a cambiare il verso della impetuosa corrente che sta facendo diventare la “post-verità” un surrogato ormai più in voga di qualsiasi verità, senza prefissi né suffissi.
A maggior ragione, se questo è il clima, ed è evidente che QUESTO E’ IL CLIMA, il buon giornalista ha un’occasione irripetibile per giustificare la propria presenza nel mercato dell’informazione. A dispetto dei profeti di sventura che confondono la crisi forse irreversibile della carta con la crisi di un mestiere che cambierà strumenti e modalità ma non la ragione storica della propria persistenza, il giornalista continuerà ad avere una funzione semplice e vitale: raccontare il tempo, la verità del tempo.
Lo spartiacque è destinato a diventare sempre più netto tra chi (giornali e giornalisti) si sottrarrà alla montante dittatura del “mi piace” e chi invece la inseguirà come una fata morgana. Tra chi si ammalerà di “psicosi da accertamento” e chi seguirà l’onda facile e fasulla del “così fan tutti”.
Sembrano predichette morali. Sono invece, oggi come mai, la ragione profonda per scegliere questo mestiere e per onorarlo, onorando e ascoltando le urgenze di ogni singolo lettore, ogni giorno come fosse il primo giorno.
Il vero argine alla valanga delle post-verità è un’opera collettiva, realizzata facendo ciascuno la propria parte, mettendo a punto un brevetto universale da applicare ai nostri articoli, ai nostri servizi, ai nostri siti, ai nostri giornali. Darei anche un nome a questo brevetto. Lo chiamerei: l’ALGORITMO DELLA CREDIBILITA’.
*Pubblichiamo l’intervento dell’autore reso in occasione del convegno “Vero, verosimile, post-verità: Scola incontra i giornalisti”
Trackback dal tuo sito.