Omicidio Alpi, il caso non può essere chiuso
“Ringrazio i magistrati della corte d’appello di Perugia per avermi restituito la speranza dopo 23 anni di bugie e di depistaggi. Mi auguro che alla luce di questa sentenza i magistrati di Roma si decidano a darci giustizia sugli assassini di Ilaria e Miran”. Luciana Alpi, mamma di Ilaria, sceglie di leggere queste parole durante la conferenza stampa del 31 gennaio scorso. Lo fa perché sono parole pensate e pesate.
Su tutte c’è quel “depistaggio”. Sì, perché stavolta ad usare questo termine non sono le ricostruzioni giornalistiche o i tentativi di investigazione parallela. Stavolta, la parola depistaggio, la mettono nero su bianco i giudici della corte d’assise di Perugia che si sono occupati del processo di revisione di Hashi Omar Hassan, l’unico condannato per il duplice omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin che però, il 19 ottobre scorso, è stato definitivamente assolto dalla corte umbra “per non aver commesso il fatto”.
Ma arrivata l’assoluzione, ora più che mai ci si deve interrogare su come sia stato possibile costruire una “verità” che, per 23 anni, è stata manipolata. E soprattutto bisogna capire chi e perché lo ha fatto.
Le motivazioni che accompagnano la sentenza sono nette ed evidenziano come fin dall’inizio più che la volontà di scoprire chi realmente avesse ucciso Ilaria e Miran, ci fosse quella di chiudere il caso. Sia per da parte italiana che da parte somala. E a dirlo sono le carte. Si legge infatti di quel “sospetto” della Corte d’Assise di primo grado che “da parte somala si fosse offerto un capro espiatorio per la soluzione del problema rappresentato dall’accertamento della responsabilità del duplice omicidio”, e di come l’ambasciatore Giuseppe Cassini – che “si era recato in Somalia con l’incarico di tentare una riappacificazione tra i clan somali ed aveva ricevuto dal Vicepresidente del Consiglio dei ministri (il riferimento è al Governo allora in carica, ndr) anche la raccomandazione di acquisire informazioni circa i responsabili del duplice omicidio” – svolgesse un ruolo “ambiguo” e che “anche se in buona fede, era stato quanto meno strumentalizzato dai cittadini somali”.
Strumentalizzazione che, se vera, definirebbe un contorno troppo ingenuo per un uomo chiamato ad affrontare per conto del nostro Paese delicate questioni all’estero…
Ma quell’ambiguo di cui parlano i magistrati perugini si coniuga con le dichiarazioni del teste chiave, e cioè Ali Rage detto Gelle che, dopo le prime dichiarazioni, era risultato irreperibile per anni, salvo poi venire ritrovato e raggiunto abbastanza semplicemente (come lei stessa ha detto) da Chiara Cazzaniga, giornalista della trasmissione di Rai3 “Chi l’ha visto?”.
Gelle dirà alla Cazzaniga di come “gli italiani volevano chiudere il caso e trovare un colpevole, tanto che era stato l’ambasciatore Cassini a proporgli un accordo”. Nella rogatoria internazionale svoltasi in Inghilterra su richiesta della Procura di Roma il 31 marzo del 2016, la versione di Gelle si fa più articolata. L’uomo ricostruisce il modo in cui “fosse entrato in contatto con due intermediari di nazionalità somala che gli avevano detto come le autorità italiane volevano “chiudere il caso” e volevano “quella storia”, come cercassero solo qualcuno che raccontasse i fatti e come nessuno sarebbe stato arrestato e come, in cambio della sua collaborazione, sarebbe potuto andare in Italia. Lui che lavorava come autista per gli italiani poteva essere un soggetto credibile, qualora avesse ricostruito i fatti”.
Si cercava quindi una storia, detta da un soggetto all’apparenza credibile, per mettere a tacere la questione. Gelle dice che i due intermediari lo mettono in contatto con un terzo uomo che era “perfettamente a conoscenza della falsità della sua ricostruzione”; aggiunge ancora che, tramite questo intermediario (Ahmed Washington, somalo con passaporto tedesco) usato da Gelle come interprete “aveva raccontato anche al Cassini tutta la storia come gli era stata suggerita”. E se all’inizio ammette di non sapere “se anche Cassini fosse consapevole della falsità della sua ricostruzione dell’omicidio e non sapeva come l’interprete (e cioè Washington, ndr) avesse tradotto le sue dichiarazioni”, aggiunge però che l’ambasciatore gli avesse “più volte ripetuto come era interesse degli italiani “chiudere il caso”. In altra circostanza – si legge ancora – sembra dare conto di una effettiva consapevolezza anche dell’ambasciatore Cassini in merito alla falsità della sua ricostruzione, pur non essendo mai esplicito sul punto”.
L’obiettivo era questo: chiudere il caso. Non conoscere la verità. Non giustizia per Ilaria, Miran e le loro famiglie. Solo archiviare in fretta una vicenda scomoda.
Gelle si fa disponibile per questo disegno, forse perché la sua voglia di fuggire dalla Somalia è più grande di tutto, ma la coscienza si fa sentire, anche se all’inizio troppo poco. Si vergogna di accusare un innocente, ma non abbastanza da non farlo. Si legge nelle motivazioni: “Il suo unico interesse, infatti, era quello di lasciare la Somalia tanto che non aveva chiesto alcuna contropartita di ordine economico; si era solo procurato un passaporto ed utilizzando quel documento aveva raggiunto l’Italia utilizzando il medesimo volo dell’ambasciatore Cassini. Non voleva però testimoniare in tribunale proprio in quanto era consapevole della falsità della sua storia e proprio per questo motivo, dopo circa due mesi di permanenza in Italia, si era allontanato”.
Ecco: la disperazione di Gelle diventa utile per chiudere un caso. Gelle, definito “un soggetto che ben potrebbe essere stato coinvolto in un’attività di depistaggio di ampia portata di cui non era in alcun modo consapevole, essendo all’epoca interessato solo a lasciare la Somalia”.
Che si tratti di manipolazione dei fatti sembra emergere anche dalla facilità con cui si riescono a perdere le tracce del testimone chiave di un processo e dalla sorprendente incapacità delle autorità competenti di rintracciare quest’uomo. Uomo che poi, con disarmante semplicità, viene ritrovato e raggiunto per una intervista televisiva. “Attività di depistaggio – scrivono i giudici di Perugia – che ben possono essere avvalorate dalle modalità della “fuga” del teste e dalle sue mancate ricerche”.
Pagine che, dopo 23 anni, lasciano emergere come la disperazione umana da un lato e il cinismo dall’altro siano stati i cardini della ricostruzione dell’omicidio di Ilaria e Miran. Da una parte Hashi che è fra il novero dei somali che dichiarano di aver subìto torture dai militari italiani presenti in Somalia, che per questo va dall’ambasciatore Cassini e che poi si trova accusato di duplice omicidio; poi Gelle, che vuole scappare dal suo paese. Dall’altra personaggi somali e italiani che, volutamente, hanno usato questi due uomini.
Dopo Perugia le cose non possono rimanere immutate.
L’avvocato Domenico D’Amati, legale rappresentante della famiglia di Ilaria, ha dichiarato: “La sola certezza è che la sentenza della Corte d’Appello di Perugia ci restituisce un innocente, però non ci indica ne un colpevole, né un mandante. Ora questo ricade sulla Procura di Roma. Il punto di ri-partenza può e deve essere il depistaggio che ci fu”.
Durante la conferenza stampa Luciana Alpi ha espresso il desiderio che “il Presidente della Repubblica leggesse le motivazioni della sentenza scritte dai magistrati della corte d’appello di Perugia”. Accanto a lei, il 31 gennaio, c’erano la Federazione Nazionale della Stampa, pronta a costituirsi parte civile qualora la procura di Roma intenderà riaprire il caso, l’Usigrai (e ricordiamo l’appello lanciato alle istituzioni qualche settimana fa dal TG3) e Walter Verini, capogruppo del Pd in commissione Giustizia alla Camera.
Luciana è stanca, per sua stessa ammissione, ma determinata, così come lo può essere solo una madre a cui hanno portato via ingiustamente una figlia. “Non ci credevo più. Sono 23 anni – ha detto – che mi batto con delusioni e amarezze. Volevo leggere le motivazioni per decidere se ritirarmi o meno. Ma quando le ho lette ho deciso di andare avanti, perché in caso contrario avrei fatto un torto a mia figlia e a Miran. E allora andrò avanti, almeno finché la salute me lo consentirà. Ma datemi una mano per non far cadere nell’oblio Ilaria e Miran”.
Perseguire la verità, raccontare quello che è stato fatto per occultarla e occuparsi adesso di ogni azione che seguirà la sentenza di Perugia è un dovere nei confronti di Ilaria e Miran, nei confronti di Luciana, che non ha mai smesso di combattere con dignità e fermezza, ed è qualcosa che si merita anche il nostro Paese, troppe volte avvolto dalle tante parole inquietanti delle versioni di comodo.
Caso Alpi-Hrovatin: sappiamo solo chi non è stato
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