Qualcuno consigliò (male) Sciascia
Giusto trent’anni fa Il Corriere della Sera pubblicò un articolo di Leonardo Sciascia intitolandolo “I professionisti dell’antimafia”. Fin da subito l’articolo divenne famoso per alcuni e famigerato per altri. Anche oggi le polemiche continuano. Felice Cavallaro, ad esempio, sempre sul Corriere ne ha fatto una rievocazione elogiativa, di lungimiranza che smaschera i rischi “dell’impostura” dell’antimafia, confermata dalla “deriva dei nostri giorni”. Condivido la risposta di Nando dalla Chiesa su questo giornale e di Mario Portanova sul sito, con un paio di aggiunte. Nel suo articolo Sciascia, sostanzialmente, affrontava due temi: il rapporto della mafia con la politica e con la giustizia. Sul primo versante avrebbe potuto prendersela con Ciancimino o Lima o Andreotti.
Scelse invece come bersaglio Leoluca Orlando, non riconoscendogli neppure il tentativo di porre alla base della sua attività istituzionale una nuova cultura politica, avversa a legami più o meno occulti con la mafia.
Quanto al secondo versante, nessun accenno ai magistrati che si “scantano” o si scansano, quelli cioè che hanno paura o preferiscono la vita tranquilla, per cui non vedono o si tirano indietro. Un attacco furibondo invece contro Paolo Borsellino, uno dei più validi componenti (insieme a Falcone) del pool di Chinnici e Caponnetto che aveva ottenuto, con il “maxi-processo”, la prima sconfitta di Cosa Nostra dopo secoli di impunità.
Roba da niente secondo Sciascia, in ogni caso non sufficiente per giustificare la nomina di Borsellino a Procuratore di Marsala (zona ad alta intensità mafiosa), a fronte di un concorrente “più in diritto di ottenere quel posto” perché più anziano, ancorché mai incaricato di un processo di mafia. Di qui l’accusa assurda a Borsellino di essere un “professionista dell’antimafia”, nel senso di un arrivista che sgomita per scavalcare colleghi più meritevoli (per l’anagrafe…). Un’accusa che dopo la strage di via d’Amelio sarebbe bestemmia riprendere.
Come tutti, Borsellino amava i libri di Sciascia e accettò una sorta di rappacificazione nonostante la sofferenza e la rabbia provate. Egli era sicuro (lo disse più volte a Ingroia, suo strettissimo collaboratore) che con quella polemica “era iniziata la fine” della stagione del pool di Palermo. Come era sicuro che qualcuno che non l’amava avesse fornito a Sciascia informazioni tendenziose.
Ora, che vi sia stato un “suggeritore” emerge chiaramente dalla circostanza che Sciascia cita testualmente vari passi del “Notiziario straordinario 10.9.86, n. 17, del Consiglio superiore della magistratura (Csm)”, vale a dire una pubblicazione che certo non figurava nella sua biblioteca né fra le sue abituali letture.
È un fatto che l’articolo alla fine produsse effetti dirompenti, ma a farne le spese fu… Giovanni Falcone. Quando si trattò di nominare il successore di Caponnetto, invece di Falcone (il più bravo di tutti nell’antimafia) venne designato un magistrato praticamente digiuno in materia, ma più anziano.
Complice l’articolo di Sciascia, sbandierato come un trofeo dai componenti del Csm inclini alla bagarre. Così, il criterio della professionalità specifica (previsto in una delibera del Csm del 15.5.86 – ignorata da Sciascia – per la nomina dei dirigenti di uffici di “frontiera” antimafia), già adottato con Borsellino, venne cancellato per Falcone. Motivando la spregiudicata giravolta anche con la necessità di valutare “prima di schierarsi, quale orientamento fosse prevalente fra i giudici e all’interno delle correnti di Palermo” (così Vincenzo Geraci, capo fila del “ribaltone”). Come a dire che un pugno di voti a favore della propria cordata contava più del rispetto dovuto alla professionalità di un magistrato come Falcone.
È innegabile che la lotta alla mafia dopo l’umiliante bocciatura di Falcone subì un arretramento di qualche decennio. Circondata la fortezza – grazie al metodo di lavoro vincente del pool – lo Stato si ritirava rinunziando alle posizioni conquistate.
Nel percorso che portò a questo sciagurato risultato Sciascia ebbe un ruolo importante, quando il cedimento alle suggestioni dell’informatore interessato fu usato strumentalmente contro Falcone, con tecnica vile e spregiudicata.
Il contributo di Sciascia fu forse inconsapevole, nel senso che egli non si curò dei possibili effetti nefasti sull’antimafia in generale che il suo articolo su Borsellino poteva avere. Ma di certo è radicalmente sbagliato attribuirgli lungimiranza o addirittura lucidità profetica per un articolo che in pratica fu un passo falso venato di astrattezza. E che in ogni caso non c’entra un bel niente con la crisi che attraversa oggi, trent’anni dopo, qualche segmento dell’antimafia sociale.
*Pubblichiamo con il consenso dell’autore il suo intervento già apparso su Il Fatto Quotidiano
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