Come migliorare il “Foia” all’italiana
Mentre è scoppiata l’oscura vicenda del cyber-spionaggio con intrusioni nella posta elettronica di miriadi di persone, e a valle di quello che è accaduto negli Stati Uniti, è persino un po’ penoso trattare il tema del Freedom information act (Foia) italiano. O, meglio, all’italiana. Lo scorso 27 dicembre è entrato in vigore il decreto legislativo 97/2016 (il cosiddetto “decreto trasparenza”): che ha modificato il d.lgs 33/201, il quale a sua volta novellò la legge madre, ovvero la 241 del 1990. A tutto ciò si sono aggiunte le “Linee guida” varate il 28 dicembre dall’Autorità nazionale anticorruzione d’intesa con il Garante per la protezione dei dati personali.
Come ben sappiamo, quando un articolato normativo è semplice e chiaro non è detto che si applichi. Figuriamoci se su di un medesimo argomento –peraltro delicato e appoggiato all’angusto crinale che separa il diritto all’accesso e la privacy- convivono testi deliberati in successione ma non sostitutivi. Mentre un cittadino senza potere viene facilmente travolto anche nei suoi dati sensibili (vedi la televisione del dolore, ad esempio), l’apparato pubblico è in molti casi autoreferenziale e generalmente si difende. La prova provata sta nel comma 3 dell’articolo 24 della 241/90, non abrogato, che recita “non sono ammissibili istanze di accesso preordinate ad un controllo generalizzato dell’operato delle pubbliche amministrazioni”. Malgrado l’insistente e tenace campagna promossa dal sito “Foia.it” e dall’associazione “Iniziativa per l’adozione in Italia del Foia”, se vi è stato indubbiamente qualche passo avanti, il nocciolo duro della questione non è stato intaccato davvero. Le citate “Linee guida” introducono spazi interpretativi interessanti, ma purtroppo condizionati dalla fonte principale. Per fare due casi di scuola. Non sono stati possibili gli accessi agli atti tesi a conoscere i motivi dell’incresciosa scelta di coprire le parti intime delle statue del Campidoglio in occasione della visita del presidente iraniano Rohani; e neppure si è potuto leggere per lungo tempo la spending review dell’ex commissario Cottarelli.
Insomma, l’apparente ribaltamento della vecchia logica del dovere di motivazione e dell’interesse legittimo, con la formale scelta dell’accesso generalizzato, si è arenato in un impressionante sistema di eccezioni. E pensate in quale inferno è costretto a calarsi colui che intende avvalersi della sua “cittadinanza”, mentre lo stesso soggetto è quotidianamente immerso in un mondo di sorveglianza capillare ed occhiuta. Senza parlare delle deviazioni criminali del controllo. Quindi, la relazione tra stato e società non rompe il vincolo della sudditanza, rimanendo impari e asimmetrica. Nell’ambiente informatico il problema si accentua, vista la pervasiva intrusione delle tecniche nella vita reale, a fronte del muro cartaceo opposto dagli apparati pubblici cresciuto nell’era digitale. Un movimento c’è. Va ricordata, tra l’altro, la strenua battaglia per la trasparenza condotta dai radicali e dal compianto Marco Pannella, apripista di una lotta contro gli “spiriti animali” del Potere. Lotta abbracciata dalle associazioni mobilitatesi da tempo. Per ora si continua a parlare di un’ipotesi futuribile, malgrado le rassicurazioni della ministra Madia.
Comunque, la legislatura non è finita e, se vi fosse la volontà, una revisione sarebbe praticabile, per entrare nell’evo moderno e rendere credibili le varie Agende digitali o le promesse sulla banda larga. Altrimenti parole rischiose.
Articolo pubblicato da “Il manifesto” mercoledì 11 gennaio 2017
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