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Riforma Costituzione e Mezzogiorno

Luigi Lochi il . Istituzioni

senato_53290252Davvero la Riforma costituzionale fa male al Mezzogiorno? Davvero la nuova ripartizione dei poteri relega la Regioni meridionali in posizioni di minore autonomia? In definitiva, davvero il nuovo assetto istituzionale prodotto dalla Riforma sottrae ai territori del Sud e quindi alle loro popolazioni le scelte strategiche del proprio sviluppo?  Per rispondere a queste domande proviamo a sintetizzare i punti principali della Riforma riguardanti la nuova disciplina dei rapporti tra Stato e Regioni. Innanzitutto, a) la istituzione del “Senato delle Autonomie”, territoriali e locali, composto da rappresentanti dei Consigli regionali (74) e da Sindaci (21), al posto dell’attuale Senato fotocopia della Camera dei Deputati;  b) la eliminazione delle materie a “legislazione concorrente” e  la conseguente riformulazione delle materie di competenza esclusiva dello Stato, individuate in quelle di rilevanza strategica nazionale;  c) la competenza residuale delle Regioni a statuto ordinario nelle materie non esclusive dello Stato; d) la introduzione della cosiddetta clausola di supremazia in virtù della quale lo Stato avrà la possibilità di intervenire nelle materie di competenza delle Regioni nei casi in cui lo richieda il superiore interesse nazionale.
L’insieme di queste innovazioni  condurrebbe ad un processo di ri-centralizzazione dei poteri in capo allo Stato e quindi  di superamento del regionalismo. Insomma, la fine della autonomia dei territori e l’affermazione di una idea di sviluppo eterodiretto. La storia repubblicana dei rapporti tra stato e territori, in effetti, sembra ispirata alla logica del pendolo: a periodi di intervento diretto dello Stato, seguono periodi di maggiore autonomia dei territori.
La Riforma della Costituzione, in realtà, si limita a razionalizzare un processo di ri-centralizzazione dei poteri che di fatto è in corso da diversi anni, anche come “precipitato chimico” delle sentenze della Corte Costituzionale in tema di conflitti di attribuzione Stato/Regioni. La Riforma  non nega l’autonomia dei territori, anzi la esalta. Di fronte ai molti fallimenti dei governi regionali e all’affastellamento di contenziosi, la novità più rilevante è il principio dell’ “autonomia differenziata”. Uno degli aspetti più innovativi della nuova ripartizione delle competenze è rappresentato, infatti, dalla affermazione del cosiddetto regionalismo a geometria variabile in cui è possibile distinguere: le Regioni a statuto speciale, le Regioni ordinarie “virtuose” e le Regioni ordinarie incapaci di assicurare una amministrazione efficiente. Alle Regioni che, in concreto, assicurano l’equilibrio finanziario, vale a dire l’efficienza delle spese, lo Stato riconosce forme ulteriori di autonomia legislativa e finanziaria. In questo modo, lo Stato premia i governi territoriali capaci di erogare migliori servizi a costi minori. Si afferma, così, fuori da ogni retorica e da ogni alibi, il principio di responsabilità, che è l’altro nome della autonomia.
In nome della responsabilità, finalmente il Mezzogiorno con le sue classi dirigenti potrà esercitare una vera autonomia. Di più, finalmente avremo la possibilità di misurare la qualità delle nostre classi dirigenti.  L’autonomia esercitata fin qui ,salvo rare eccezioni,  ha riprodotto i vecchi vizi del meridionalismo accattone e strabico, quel meridionalismo, cioè, tanto abile ad intercettare l’offerta di denaro, quanto incapace di leggere la domanda di sviluppo dei propri territori. L’autonomia fin qui esercitata, salvo rare eccezioni, ha riprodotto, inoltre, i vecchi vizi del centralismo statale: non abbiamo forse assistito all’avvento di un nuovo centralismo, quello regionale, privo di ogni spinta verso una idea di sviluppo partecipato? Occorre prendere atto che l’autonomia regionale fin qui esercitata è stata attenta più alla quantità di denaro impegnato con i vari strumenti di finanziamento piuttosto che agli effetti prodotti sui territori. Li abbiamo forse mai misurati dal punto di vista qualitativo? Quale sviluppo hanno determinato? Quale lavoro è stato incentivato? Quale futuro è stato immaginato?
L’autonomia a cui abbiamo assistito è stata quella esercitata nel chiuso dei Palazzi del potere, ai quali hanno avuto accesso esclusivamente i soliti beneficiati. Abbiamo mai visto, ad eccezione della partecipazione ai consueti convegni autocelebrativi, una classe dirigente impegnata in un lavoro di territorio che andasse oltre la frequentazione delle reti “amiche”? Abbiamo mai visto una classe dirigente farsi davvero Agente di sviluppo? Sporcarsi le mani con la nuda vita? La Riforma costituzionale, se approvata,  ci dirà – se ancora ce ne fosse bisogno – che nel Sud il re è nudo. Lo sappiamo, ma non abbiamo il coraggio di dircelo. Tranne in qualche territorio, dov’è lo sviluppo “dal basso”? Dov’è la promozione del merito? Dov’è “la nascita di un nuovo senso del dovere”? Non certamente nella conservazione degli attuali assetti istituzionali, che per noi cittadini del Mezzogiorno non fanno che alimentare quelle abitudini di governo e quelle pratiche politiche che hanno fatto del Sud una “terra di mezzo”, un progetto incompiuto, come tante costruzioni rimaste scheletro.
L’autonomia differenziata proposta dalla Riforma è una opportunità concreta per “stanare” nel Mezzogiorno una nuova classe dirigente che, avendo dismesso gli abiti della rivendicazione, del lamento, della denuncia di essere sempre gli ultimi nelle varie classifiche e avendo finalmente assunto quelli della responsabilità, della creatività progettuale e della condivisione, sia capace di promuovere processi di sviluppo con la propria comunità e non occupare semplicemente spazi di potere.
Alla fine della stagione, piuttosto breve, che ha visto i soggetti locali, nel silenzio dello Stato, protagonisti dei propri processi di sviluppo, Giuseppe De Rita osservava che “se si cerca di rispondere alle domande di crescita delle comunità rinserrandosi nelle Istituzioni si ha solo l’effetto negativo di incrostarsi in sovrastrutture o furbizie burocratiche…..L’unica modalità vera per storicizzare l’impegno delle Istituzioni, è quella di abitare la società e accompagnare i suoi diversi percorsi di sviluppo. Si governa accompagnando e non comandando”. Istituzioni anchilosate e comunque garantite sono di ostacolo ai processi di crescita. E’ vero, come scriveva Carlo Trigilia diversi anni fa, che non si da sviluppo senza autonomia, , ma è altrettanto vero che l’autonomia senza responsabilità rischia non solo di essere causa di dissesti, ma anche di perpetuare la “questione meridionale”.
Questo Mezzogiorno, allora, sarà profeta di se stesso se in occasione del referendum  riuscirà con un grande SI ad essere soggetto di cambiamento.

Con il consenso dell’autore pubblichiamo il pezzo apparso il 2 dicembre 2016 su L’Unità

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