Costituzione: obbedienza o coerenza?
Anche in politica l’obbedienza non è più una virtù. In tempi in cui le decisioni che contano vengono prese da pochi leader, magari in qualche ristretta stanza extraparlamentare, la disobbedienza agli ordini del “capo”, potrebbe persino diventare una nota di merito, perché denota l’indipendenza del politico.
Questo vale per l’obbedienza. Discorso del tutto diverso si potrebbe fare per la coerenza. Aldo Moro l’11 dicembre 1947 presentò in Assemblea Costituente un ordine del giorno affinché “la nuova Carta Costituzionale trovi senza indugio adeguato posto nel quadro didattico della scuola di ogni ordine e grado”. Quando, dieci anni dopo, divenne Ministro della Pubblica Istruzione, Moro introdusse l’educazione civica nelle scuole: un bell’esempio di coerenza.
Esistono ancora uomini e donne di questo spessore nei partiti odierni?
La domanda sorge spontanea pensando alle posizioni espresse da molti esponenti di vari partiti a proposito del referendum costituzionale, che risultano alquanto contraddittorie sia nel fronte del SI sia in quello del NO.
A lasciare maggiori perplessità sono soprattutto i politici del Partito Democratico che sostengono il progetto di riforma costituzionale, perché si tratta di una scelta in netto contrasto con quanto sta scritto nell’atto di nascita del partito. Infatti, nel Manifesto dei Valori, approvato il 16 febbraio 2008 dall’Assemblea Costituente del Partito Democratico, si legge: «La sicurezza dei diritti e delle libertà di ognuno risiede nella stabilità della Costituzione, nella certezza che essa non è alla mercé della maggioranza del momento, e resta la fonte di legittimazione e di limitazione di tutti i poteri. Il Partito Democratico si impegna perciò a ristabilire la supremazia della Costituzione e a difenderne la stabilità, a metter fine alla stagione delle riforme costituzionali imposte a colpi di maggioranza, anche promuovendo le necessarie modifiche al procedimento di revisione costituzionale. La Costituzione può e deve essere aggiornata, nel solco dell’esperienza delle grandi democrazie europee, con riforme condivise, coerenti con i princìpi e i valori della Carta del 1948, confermati a larga maggioranza dal referendum del 2006».
Non solo: Matteo Renzi, presentando in Parlamento il progetto di revisione costituzionale, l’8 aprile 2014 ha affermato: «Senza uno sforzo riformatore lungimirante e condiviso, che sappia tenere assieme in modo coerente le riforme costituzionali, elettorali e dei regolamenti parlamentari, non è possibile ricomporre su nuove e più solide basi il circuito della rappresentanza democratica».
Obiettivamente non sono state realizzate le necessarie modifiche per fare in modo che la Costituzione non sia alla mercé della maggioranza del momento. Anzi, stiamo assistendo ad una nuova stagione di riforme costituzionali a colpi di maggioranza, promosse anzitutto proprio da chi ha condannato questa pratica, promettendo soltanto revisioni condivise. Appare arduo trovare una spiegazione logica a questa drastica inversione di rotta. Resta il fatto che in questo contesto sia pertinente quanto ha scritto Tania Grossi, curatrice del paragrafo dedicato all’art. 138 nel “Commentario alla Costituzione”: «La degenerazione nell’utilizzo dell’art. 138 cui si è assistito nel nuovo millennio, attraverso la realizzazione di ampie riforme sostenute soltanto dalla maggioranza di governo: in tal modo si nega l’essenza stessa della Costituzione italiana, ovvero il suo carattere pattizio e consensuale».
Le forzature effettuate dalla maggioranze sul tessuto costituzionale non rappresentano soltanto un torto fatto nei confronti delle minoranze, ma ancor di più sono una lacerazione nella trama sulla quale si fonda la convivenza democratica.
Per questa ragione resta d’attualità la massima di James Freeman Clarke, teologo statunitense, che nel 1876 ha scritto: «Un politico guarda alle prossime elezioni; uno statista guarda alla prossima generazione. Un politico pensa al successo del suo partito; lo statista a quello del suo Paese».
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