Speciale Tg1, giornalismo civile
Sparare sulla Rai per lamentarsi delle presunte o reali omissioni del servizio pubblico è per nulla appassionante e fin troppo facile, tanto da diventare ormai uno sport nazionale, in cerca sempre di nuovi campioni della critica.
Spesso e volentieri però ci si dimentica dei tanti validi professionisti Rai che documentano le vicende dei territori italiani con inchieste e servizi per i tg e i periodici di approfondimento. In particolare, il Tg3 con poche ma qualificate firme svolge un’opera preziosa e difficile, purtroppo spesso sottovalutata.
Ecco perché occorre saper distinguere nella marmellata televisiva le vere perle che l’informazione di qualità può offrire.
È questo il caso di “Cose nostre”, la bella inchiesta che è stato realizzata per Speciale Tg1 da una giornalista di valore come Maria Grazia Mazzola che, da decenni ormai, è in prima linea nel racconto delle mafie nostrane. Il reportage è andato in onda domenica 23 ottobre in tardissima serata, eppure è stato in grado di sbaragliare tutte le altre reti nazionali, pubbliche e private, con picchi d’ascolto importanti vista l’ora.
Il punto di partenza dell’inchiesta è stata una domanda semplice ma disarmante: cosa vuol dire nascere in una famiglia mafiosa e quante probabilità hanno i giovani di uscirne, quando il contesto che avvolge singoli e comunità non sembra lasciare spazi e alternative?
A partire da questa domanda dirimente anche se disarmante, il racconto ha preso avvio da Castelvetrano in provincia di Trapani e da quello che nell’immaginario collettivo di molti, soprattutto giovani, sembra essere diventato Matteo Messina Denaro: un mito, un eroe moderno e non uno dei boss più sanguinari della storia di Cosa nostra.
Una perversa opera di fascinazione che va smontata dall’interno e per farlo Maria Grazia Mazzola cala l’asso di due testimonianze davvero fondamentali: quella della cugina di primo grado del boss, Rosa Filardo Cimarosa e di suo figlio Giuseppe. Dalle loro parole esce con nettezza la condanna di una mafia che toglie futuro ai giovani. Un futuro che Giuseppe e la madre vogliono vivere lontano da parenti coinvolti a filo doppio con il boss latitante, riconoscendo gli errori del passato. Non vanno dimenticate, infatti, le responsabilità del marito della donna il cui ruolo di fiancheggiatore è stato appurato e che oggi sta rendendo piena collaborazione alla giustizia. I figli della donna hanno scelto l’arte equestre e il teatro per riscattarsi da legami soffocanti e oggi hanno attorno a loro una nuova famiglia, fatta di amici, conoscenti, fruitori del loro maneggio.
Sarebbe però riduttivo ricordare l’inchiesta di Speciale Tg1 solo per questo che è stato uno scoop vero e proprio: i famigliari di un capomafia tra i più autorevoli che raccontano dagli schermi del primo canale Rai la loro rottura con una mentalità e un mondo come quelli mafiosi, dai quali fino ad oggi sembrava impossibile prendere le distanze. Sarebbe riduttivo perché c’è molto di più nel lavoro della collega.
La giornalista del Tg1, infatti, dipana il filo del suo ragionamento lungo le strade e i negozi di Castelvetrano, raccogliendo testimonianze e omertà, per risalire lo stivale e raccontare come le mafie si rigenerino continuamente, facendo leva su un bacino di manovalanza giovanile sempre inesauribile, visto le punte di disoccupazione impressionanti che si registrano nel Paese.
L’altra tappa del viaggio è Napoli, una città piegata dalla camorra liquida che si insinua nei quartieri, una Napoli che viene raccontata non solo con le condanne della paranza dei bambini, ma anche con i semi gettati nel futuro dalla storia toccante della piccola Annalisa Durante, vittima innocente dello scontro tra i clan Giuliano e Mazzarella. L’impegno del padre Giovanni in favore del quartiere in cui si è consumata la sua tragedia personale e il lavoro di Don Luigi Merola per il recupero di ragazzi in difficoltà sono luci di speranza in fondo al tunnel della disperazione, un tunnel in cui la città sembra essersi infilata da decenni.
E ancora la Calabria, dove le storie grandi come la strage di Duisburg si accompagnano a quelle minori di Platì e San Luca, cuore della ‘ndrangheta che oggi è leader mondiale nel traffico di cocaina, quella droga che finisce a buon mercato sulle piazze di Milano, Firenze, Roma.
Una Calabria però che lancia segnali di cambiamento, proprio a partire dall’attenzione ai figli delle famiglie mafiose da parte delle istituzioni. Dal 2012 ad oggi sono oltre trenta i provvedimenti emessi dal Tribunale dei Minori di Reggio Calabria che stabiliscono la decadenza o la limitazione della potestà genitoriale in capo a uomini e donne di famiglie mafiose: si cerca in questo modo di sottrare i minori alle famiglie mafiose ed evitare che seguano il destino loro assegnato, contando anche sulla collaborazione di associazioni come Libera e Addio Pizzo. Il presidente del Tribunale Roberto Di Bella spiega le ragioni di simili provvedimenti e si percepisce dalle sue parole come quest’azione sia profondamente motivata dalla fiducia nella possibilità di un futuro diverso per questi ragazzi.
L’ultima terra visitata dal reportage è il Salento, dove la Sacra Corona Unita, nata con l’autorizzazione della ‘ndrangheta ormai trent’anni fa, alimenta il mito del mafioso nel deserto più totale delle possibilità di crescita e di lavoro per i giovani pugliesi.
Di fascinazione della mafia parlano tanto il procuratore di Catanzaro Nicola Gratteri, quanto quello di Lecce Cataldo Motta ed entrambi, come il loro collega di Napoli Giovanni Colangelo, sottolineano l’urgenza della necessità di affiancare la repressione dei fenomeni criminali con educazione e lavoro.
Al termine della visione, forse può restare lo sgomento per una situazione che sembra non dover cambiare, ma affiora anche la consapevolezza che delle mafie occorre parlarne, in maniera seria e documentata come ha fatto Maria Grazia Mazzola. L’auspicio è che reportage così possano andare in onda in prima serata. Sarebbe un bel segnale per l’annunciato nuovo corso della Rai.
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