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Il boss Nirta in via Fani, una certezza nel mistero

Luca Bonzanni il . Senza categoria

Uno scatto. Un volto rimasto velato dal mistero per quasi quarant’anni. Un nuovo tassello nei misteri repubblicani, nuove ombre che accendono nuove ipotesi. Roma, via Fani, 16 marzo 1978, l’assalto all’auto di Aldo Moro, il massacro dei cinque agenti di scorta; poi i 55 giorni di prigionia, la Renault 4 in via Caetani, il 9 maggio che cambia la storia d’Italia. Ma quel mattino, nel cuore della capitale, non c’erano “solamente” i brigatisti.
La conferma è giunta solo in queste ultime settimane, in mezzo ci sono le parole messe a verbale ventiquattro anni fa da uno dei principali pentiti di ‘ndrangheta, la svolta è invece una fotografia dimenticata per decenni in archivi polverosi. Quella mattina, in via Fani, c’era anche Antonio Nirta, boss di San Luca, nome di primissimo piano nelle gerarchie della ‘ndrangheta.
Il punto lo ha segnato la Commissione d’inchiesta parlamentare sul rapimento e l’omicidio di Aldo Moro. Il 12 luglio, la svolta: i deputati hanno acquisito la relazione riservata che il Ris di Roma ha svolto su un «flash» ripescato dagli archivi de «Il Messaggero», è un’istantanea di quella mattina di sangue, tra la folla c’è un viso che oggi ha un nome certo. «Grazie alla collaborazione del Ris dell’Arma dei Carabinieri, possiamo affermare con ragionevole certezza che il 16 marzo del 1978 in via Fani c’era anche Antonio Nirta (morto a settembre 2015, ndr)», ha certificato Giuseppe Fioroni, presidente della Commissione d’inchiesta.
Ma come si è arrivati fin qui? Bisogna tornare al 1992, risalire l’Italia sino a Bergamo, al suo carcere. Qui, dal 18 settembre di due anni prima, è detenuto Saverio Morabito, killer e uomo di punta della ‘ndrangheta insediatasi in Lombardia, tra Buccinasco e dintorni. Sangue e anche droga, perché è proprio per via del narcotraffico che Morabito cade nella rete degli inquirenti: tra 1989 e 1990, il clan Sergi s’insedia a Rota Imagna, borgo arroccato su una piccola valle della Bergamasca, per impiantarvi la più grande raffineria di droga del Nord Italia. Un laboratorio d’alto livello, che produce eroina da esportare negli Usa, dove sarebbe stata “barattata” con cocaina; nell’affare criminale è coinvolto anche Roberto Pannunzi, il più importante narcotrafficante italiano e probabilmente d’Europa. Il piano va storto, la raffineria è scoperta dai carabinieri nel maggio 1990, di lì a poco – appunto – anche Morabito finisce in manette.
Nel carcere bergamasco matura la decisione che in pochi si aspettano: Morabito sceglie di collaborare con la giustizia, riempie migliaia di pagine di verbali, racconta al pm milanese Alberto Nobili i segreti della ‘ndrangheta in Lombardia. Da quelle parole nascerà l’operazione «Nord Sud», 221 ordinanze di custodia cautelare spiccate nell’ottobre 1993, sfociate successivamente in condanne per centinaia di anni di reclusione e innumerevoli ergastoli.
Ma c’è dell’altro, in quei verbali. Negli interrogatori del 28 ottobre e del 6 novembre 1992, Morabito svela al magistrato un particolare prezioso sulla strage di via Fani: l’ex killer racconta di aver appreso della presenza di Antonio Nirta sul luogo dell’assalto, aggiunge che tra lo stesso boss e Francesco Delfino – alto ufficiale dei carabinieri coinvolto nelle indagini su Moro – esistevano rapporti a dir poco ambigui. A verbale ci sono parole preziose, ancorché con un filo di dubbio: «Nirta fu uno degli esecutori materiali del sequestro, tuttavia non so se abbia preso parte al sequestro materiale o se è stato uno di quelli che sparava». C’è di più, c’è anche – tra i monumentali faldoni prodotti della magistratura sulla morte del presidente della Dc – un’intercettazione telefonica datata 1° maggio 1978, al telefono ci sono Benito Cazora e Sereno Frato, politici democristiani vicinissimi allo stesso Moro: «Dalla Calabria mi hanno telefonato per informarmi che in una foto presa sul posto quella mattina (la mattina del 16 marzo, ndr) si individua un personaggio noto a loro», afferma Cazora. “Loro” chi? Il sospetto, tra chi indaga, è che quel “loro” stia per degli emissari della ‘ndrangheta.
Di indizio in indizio – tra i più recenti, anche un interrogatorio a Raffaele Cutolo datato settembre 2015: riferisce di contatti tra Br e mafia calabrese a proposito del reperimento delle armi – si è giunti finalmente a quella fotografia che scrive una certezza: quel volto in via Fani era quello di Antonio Nirta, la ‘ndrangheta era sul luogo del massacro. Una certezza, ma allo stesso tempo un mistero che s’infittisce ancor di più.

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