Gli allarmi ignorati in Italia sull’evoluzione del narcotraffico albanese
È da molti anni, ormai, che gruppi della criminalità albanese si sono insediati nel nostro paese per gestire ampi spazi nello sfruttamento della prostituzione e del narcotraffico. Le regioni della Lombardia, dell’Emilia Romagna, della Toscana, della Puglia, dell’ Umbria e del Veneto, sono quelle dove la loro presenza è maggiore. Tra le caratteristiche evidenziate nel corso di indagini di polizia giudiziaria, vanno segnalate la grande affidabilità di cui gli albanesi godono nel mondo criminale e l’articolazione in clan familiari (in questo ci sono somiglianze con la ‘ndrangheta), solitamente tre o quattro persone che appartengono alla stessa città o allo stesso quartiere e che, conseguito l’obiettivo, si disaggregano per confluire in altri gruppi. In alcuni casi sono emerse organizzazioni più stabili ma con la struttura generalmente orizzontale, all’interno della quale è riconosciuto solo il capo essendo le altre figure intercambiabili. L’omertà (“besa” il c.d. “codice del silenzio”) è, in tutti i casi, il valore di riferimento. Arresti e condanne, difficilmente hanno portato a collaborazioni significative per gli inquirenti.
In effetti, sin dall’ottobre del 1996, era stato Giorgio Napolitano, allora ministro dell’interno, durante una sua visita in Puglia, a manifestare grande preoccupazione per i collegamenti che andavano emergendo tra la mafia albanese e i clan pugliesi. Pochi mesi dopo, era toccato all’ex capo della polizia Alessandro Pansa, a quei tempi direttore dello SCO (Servizio Centrale Operativo), rilanciare l’allarme sul ruolo che stava assumendo la criminalità albanese sul mercato internazionale delle droghe. Quatto anni dopo (ottobre 2000) era scesa in campo la DIA (Direzione Investigativa Antimafia) a segnalare il “pericolo albanese” in Italia sottolineando, nelle conclusioni del rapporto, “..la maggiore organizzazione e l’evoluzione verso modelli propriamente mafiosi dei sodalizi criminali albanesi dediti al traffico degli stupefacenti che rendono ancor più difficile l’attività preventiva e di contrasto. Difatti la peculiare caratteristica familiare clanica si affievolisce, sfumando, sempre più, man mano che il volume dei traffici cresce”. E già allora si profilava l’ipotesi di “..un innalzamento del livello qualitativo dei delinquenti albanesi che, da originari semplici spacciatori, sono diventati trafficanti di alto livello”. L’auspicio degli investigatori ( inascoltato, come capita spesso) era stato “…di accelerare al massimo ogni iniziativa,sia in campo nazionale che internazionale, per fronteggiare un fenomeno che costituirà, probabilmente, la più pericolosa organizzazione di tipo mafioso tra quelle che fino ad ora ci si è trovati a dover affrontare”. In quel periodo, gli albanesi coinvolti in reati associativi e nello spaccio di droghe erano passati dai 14 del 1993 ai 943 del 2000 (fonte, relazioni annuali della DCSA, Direzione Centrale per i Servizi Antidroga).
Nel 2012, l’allarme sulla criminalità albanese dedita al narcotraffico arrivava dal consueto rapporto annuale della DCSA che parlava di “..modelli comportamentali simili a quelli mafiosi, tendenti ad occupare fisicamente il territorio mediante metodi violenti e brutali per assicurarsi il predominio sulle altre organizzazioni”. Naturalmente anche questo allarme fu ignorato e oggi,per le forze di polizia e la magistratura, lasciate a fronteggiare una criminalità in evoluzione, l’imperativo è di “rimboccarsi le maniche” per contrastare organizzazioni divenute pervasive, poderose e “..dotate di una spiccata flessibilità e, conseguentemente, della capacità di allestire joint venture con i gruppi criminali di altre etnie…”(relazione DCSA, 2015). Nel frattempo, nel 2015, gli albanesi denunciati all’a.g. per traffico, associazione finalizzata al traffico e per spaccio, sono aumentati a 1.555 – di cui 44 donne – ( il picco più alto dell’ultimo decennio si è avuto nel 2013 con 2.286 albanesi denunciati). A metà del corrente anno si è già a oltre 600 denunciati (dato provvisorio).
Insomma, la “mafia delle aquile” ha consolidato una robusta e diffusa rappresentanza anche nel nostro paese dopo aver aperto diverse “agenzie” del narcotraffico in Montenegro, Croazia, Slovenia, Serbia, e Kosovo attraverso le quali, controllando la rotta balcanca, contrabbanda circa l’80% dell’eroina immessa sul mercato europeo.
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