26 luglio. Tre vittime innocenti e un silenzio da combattere
26 luglio. Tre morti diversi, in tre anni diversi, ma accomunati dall’essere vittime innocenti di mafia circondate dal silenzio complice di chi li ha viste morire.
In quella data muoiono Rita Atria, Maria Giovanna Elia e il piccolo Andrea Savoca.
È il 1992 quando Rita, in quel 26 di luglio, decide che non ce la fa più, che la solitudine a cui l’ha condannata la morte del giudice Paolo Borsellino è troppo più grande dei suoi 17 anni. Più grande di un vuoto creato anzitutto dalla madre che ripudia pubblicamente quella figlia che, dopo la scelta della giovane di diventare testimone di giustizia, non si piega al codice (non d’onore, sia chiaro) al quale è stata educata.
Sì, perché Rita è figlia di Vito, uomo di mafia, uno “che conta” a Partanna, paesino del Belice, che viene ucciso da cosa Nostra nel novembre del 1985. Don Vito, ufficialmente pastore, appariva agli occhi della Rita bambina come una persona di rispetto che sapeva mettere pace e trovare soluzioni per tutti. Insomma, un padre che si spendeva per gli altri senza avere un personale tornaconto, se non quello di commettere impunemente reati di abigeato e di intrattenere rapporti con le persone giuste.
E quel padre adesso morto ammazzato, forse perché incapace di interpretare il mutamento della mafia, lascia in Rita un vuoto che solo il legame col fratello Nicola può colmare. E più si stringe il rapporto con Nicola e con la moglie di lui, Piera Aiello, più fratello e sorella diventano confidenti. Nicola le racconta degli equilibri mafiosi esistenti in paese, le spiega chi veramente tira le fila degli affari; soprattutto, le confida movente e nomi delle persone coinvolte nell’omicidio di don Vito. Senza accorgersene, giorno dopo giorno, Rita si trova ad essere custode di segreti troppo grandi per lei.
Nel frattempo Rita ha anche trovato l’amore di un ragazzo, Calogero. Ma questa quiete apparente è destinata a durare poco. Il 24 giugno del 1991 il fratello Nicola muore sotto i colpi di cosa Nostra. La moglie Piera, che da sempre aveva contestato al suo uomo le frequentazioni e gli affari, ha visto in faccia gli assassini del marito e decide di collaborare con la giustizia.
Giovanna, la madre di Rita e Nicola, vive il desiderio di giustizia di Piera come un tradimento alle regole della famiglia. Lei che davanti alla morte del marito Vito ha taciuto, continua a rimanere zitta pure davanti a quella del figlio. Rita è sconvolta. Anche il suo fidanzato Calogero conosce il codice non scritto che vige da quelle parti e decide di interrompere la relazione con Rita perché cognata di una “pentita”.
Mentre attorno le si fa il vuoto, Rita matura dentro la convinzione che il solo modo di avere giustizia sia quello di fare come Piera. Così, nel novembre del 1991, decide di seguire le orme della cognata e di rivolgersi alla magistratura. Da allora ad accogliere le sue parole e a starle vicino come un padre ci sarà Paolo Borsellino, all’epoca procuratore a Marsala.
Rita trova in Borsellino un angelo protettore: si sente forte e fa nomi, racconta fatti.
Lo fa fino a restare completamente sola, ripudiata dalla famiglia e costretta ad abbandonare la sua Partanna per vivere sotto protezione a Roma.
Uno sforzo enorme per una ragazza della sua età. Uno sforzo che la schianta quando il 19 luglio del 1992 la strage di via D’Amelio le porta via il suo giudice. Rita non regge. Il 26 luglio si lancia dal settimo piano del palazzo in cui viveva.
Rita farà ritorno alla sua terra in una bara. Nessuno del suo paese sarà presente alle esequie, nemmeno la madre, che si recherà sulla tomba della figlia solo molto tempo dopo per oltraggiarne la lapide, prendendola a martellate, e strapparne poi la foto.
“Fimmina lingua longa”, dicevano di lei. Per chi è abituato a piegarsi alla legge del “non ho visto”, evidentemente il coraggio di denunciare è un peccato da pagare con l’oblio.
Altro 26 luglio. Stavolta è il 1991. Siamo a Palermo e cosa Nostra ammazza il piccolo Andrea Savoca, di 4 anni, insieme al padre.
Aveva una sola colpa Andrea: quella di essere figlio Giuseppe, delinquente comune con radici mafiose e una gran voglia di scalare i vertici del clan.
Insieme al fratello Salvatore, Giuseppe rapinava i tir nel quartiere Brancaccio, ma senza l’autorizzazione dei boss di zona. Cosa questa che non poteva essere tollerata. Non solo perché in questo modo i Savoca riempivano le vie del quartiere di uomini delle forze dell’ordine, ma soprattutto perché così facendo sottraevano ai clan la merce destinata ai commercianti che regolarmente pagavano il pizzo. Come racconterà poi Giovanni Brusca, la commissione provinciale di cosa Nostra, si riunì per affrontare il problema: decise che era opportuno prima cercare di convincere con le buone i Savoca a smettere e poi, nel caso in cui i fratelli risultassero insensibili agli avvertimenti, intervenire in modo più duro.
Ma i Savoca non avevano la minima intenzione di interrompere quella che per loro era al contempo la propria attività e una scalata delle gerarchie criminali. Allora bisogna andare giù duri.
Il 26 luglio del ’91 Giuseppe, condannato a otto anni per rapina, sta andando con la famiglia al mare prima di tornare in carcere all’Ucciardone, dopo una licenza premio di quattro giorni.
Il tempo di una sosta in via Pecori Giraldi, la moglie che sale per un saluto rapido alla madre assieme alla figlia più grande, Emanuela di otto anni, e l’inferno si scatena.
Due sicari in sella ad una moto e con il casco integrale si avvicinano alla Passat di Savoca e aprono il fuoco. Giuseppe muore sul colpo, il piccolo Andrea, invece, morirà dopo una lunga agonia. Illeso per miracolo il figlio minore, Massimiliano, all’epoca di appena due anni.
Andrea non muore per un colpo di rimbalzo: Andrea viene colpito da almeno due proiettili.
L’ordine ai killer dato dai capimafia Michelangelo La Barbera e Matteo Motisi, è stato quello di far terra bruciata, di non lasciarsi niente alle spalle e far capire che non si deve sfidare il potere mafioso costituito. Anche a costo di uccidere innocenti.
Gioacchino Natoli, il sostituto procuratore che allora coordinava le indagini, mostra tutto il suo sconforto nel constatare un silenzio che non si lascia scalfire neanche dalla morte di un bimbo: “Quella via, al momento del delitto, era affollatissima” – dice. “Almeno cinquecento persone avranno assistito all’ agguato. Ma non c’ è stato un teste, dico uno, fra tutti quelli sentiti, che ci abbia detto almeno il colore del mezzo utilizzato dagli assassini. È terribile, sono letteralmente sconvolto”.
Silenzio dopo e silenzio prima. Perché due giorni avanti all’omicidio, la famiglia Savoca aveva taciuto la scomparsa di Salvatore e ci vorranno anni per scoprire che il più giovane dei fratelli Savoca era stato strangolato in un magazzino di Capaci. Il suo cadavere non verrà mai ritrovato.
Storie dolorose ma che col tempo sono diventate note. Storie che insegnano. La scelta di Rita, oggi, è un esempio. La vicenda del piccolo Andrea, invece, mostra ancora una volta che no, per la mafia – le mafie – non ci sono intoccabili.
Ma ci sono voluti anni per arrivare a capire che la criminalità organizzata, quando serve, spara nel mucchio e non si ferma davanti ai bambini o alle donne. Il 26 luglio è anche l’anniversario della morte di Maria Giovanna Elia, ammazzata nel 1973. Di lei si sa solo che era una casalinga di 67 anni e che ha avuto la sfortuna di uscire, in una sera d’estate, sul balcone di casa sua nella speranza di godersi un po’ di fresco. Solo che a Crotone, quella sera, si era scatena la faida fra i Vrenna e i Feudali. Durante il conflitto a fuoco un proiettile vagante la colpisce. Per lei non c’è nulla da fare.
Maria Giovanna viene ammazzata in un periodo in cui la società civile è silenziosa e la paura è ancora troppo diffusa per pensare di denunciare pubblicamente la morte di un innocente. E allora anche solo ritrovare il suo nome è segno di un silenzio rotto e di una strada che, nonostante il rischio di assuefazione alla cronaca e la necessità di fare distinguo, in molti non vogliono smettere di percorrere.
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