Di Matteo e Via D’Amelio nel giorno di Provenzano
Per una combinazione assolutamente fortuita ma estremamente significativa, il tradizionale ricordo della strage di via D’Amelio nel territorio triestino quest’anno ha visto incrociarsi volti e storie in modo del tutto imprevisto.
Siamo a Muggia, un piccolo centro alla periferia estrema di Trieste: da questo piccolo comune è partito Eddie Walter Cosina per quello che sarebbe stato il suo ultimo viaggio, diretto, senza saperlo, incontro alla morte che aspettava lui e i suoi colleghi della scorta di Paolo Borsellino in via D’Amelio a Palermo, dove furono spazzati via dalla violenza mafiosa nell’estate del 1992.
Quel tragico 19 luglio ha segnato la storia del nostro Paese e la vita di tante persone, a partire dalla famiglia di Cosina: la madre, le due sorelle, i nipoti di Eddie aspettano da quel giorno che venga fatta luce sulla terribile strage di via D’Amelio. Da quasi dieci anni, dopo un lungo periodo di silenzio legato al dolore e alla volontà di dimenticare, hanno deciso di chiedere verità e giustizia alla luce del sole, accompagnati in questo cammino lento e faticoso da Libera e dal SIULP, uno dei sindacati della Polizia di Stato.
Ogni anno, nella settimana che precede l’appuntamento con l’anniversario, viene organizzato un momento di riflessione e di informazione per fare il punto della vicenda processuale e storica di quel drammatico passaggio della nostra Repubblica. Giornalisti, studiosi, magistrati, rappresentanti dell’associazionismo e delle forze dell’ordine vengono a Muggia per ricordare il sacrificio di Eddie e per portare il loro contributo all’accertamento della dinamica dei fatti.
Quest’anno l’ospite è Nino Di Matteo, il magistrato della Procura della Repubblica di Palermo che conduce il processo sulla trattativa Stato – mafia e che ha svolto altri delicati processi per accertare le collusioni tra boss criminali e uomini delle istituzioni. Già da alcuni anni era atteso a Muggia e ora mantiene la promessa di venire ad incontrare la famiglia di Eddie Cosina.
La morte di Provenzano
Prima ancora che si materializzi in quel di Trieste l’imponente apparato di sicurezza che fa del giudice Di Matteo l’uomo più scortato d’Italia, le agenzie battono la notizia della morte di Bernardo Provenzano presso l’ospedale San Paolo di Milano.
Se ne va per sempre l’uomo dei misteri di Cosa Nostra, l’alter ego di Riina prima e lo stratega della sommersione di Cosa nostra poi, il boss temuto e celebrato che negli ultimi anni aveva manifestato un decadimento complessivo delle sue condizioni fisiche e psichiche, che lo avevano escluso dalla partecipazione al processo sulla trattativa.
La notizia della sua morte quindi non è un fulmine a ciel sereno, visto che nelle ultime settimane si erano già diffuse le notizie di un suo aggravamento, tanto da far chiedere ai familiari più volte la possibilità di revocare il regime del carcere duro, per poter accudire negli ultimi giorni il proprio congiunto. «I veri detenuti al 41 bis – dichiara l’avvocato dei Provenzano, Rosalba Di Gregorio – sono i parenti, il regime di restrizione è stato applicato ai figli e alla moglie impedendogli di poterlo vedere. È da più di tre anni che il mio assistito non era più in condizione di capire né dove fosse né di parlare: era un vegetale nutrito artificialmente. Eppure alla famiglia è stato impedito».
Le richieste di scarcerazione e di revoca del 41 bis non sono state accordate con motivazioni di possibili rappresaglie nei confronti del boss, motivazioni che non saremo certo noi a sottoporre a vaglio critico, nonostante qualche dubbio sulla necessità di un rigore così forzato anche in limine mortis sia legittimo, come evidenziato in questa dichiarazione del sostituto procuratore generale di Palermo, Nico Gozzo: «Si è voluto continuare ad applicare il 41 bis ad un uomo già morto cerebralmente, da tempo. Con ciò facendo nascere l’idea, in alcuni, che la Giustizia possa essere confusa con la vendetta. O che il diritto non è uguale per tutti. E ciò, per me, è inaccettabile».
In questi giorni molto è stato scritto sul fatto che il boss corleonese si sia portato nella tomba i segreti di una latitanza pluridecennale e dei rapporti con uomini delle istituzioni. Non aggiungeremo altre parole di fronte al mistero della morte: anche se non vogliamo infierire, non possiamo però dimenticare la lunga scia di sangue che Provenzano ha lasciato alle sue spalle.
Ecco perché, nonostante la coincidenza della manifestazione di Muggia con la scomparsa di Provenzano, il registro scelto per la serata è stato quello di continuare il percorso di conoscenza dei fatti, superando la tentazione dello scoop pruriginoso, avendo a disposizione il magistrato che si sta battendo non solo contro una temibile organizzazione criminale, ma anche contro le deviazioni di apparati dello Stato, assolutamente determinati nel porre ostacoli all’accertamento della verità.
“Avete il diritto/dovere di chiedere la verità su via D’Amelio”
In un teatro Verdi di Muggia riempito in ogni posto, dopo i saluti degli organizzatori e delle autorità, prende la parola il pm Di Matteo per ricordare come le commemorazioni debbano essere sostenute da un profondo rispetto dei valori coltivati da Paolo Borsellino e da un continuo impegno nella ricerca della verità su quanto accaduto in via D’Amelio.
Il magistrato rivendica il lavoro fatto in questi anni da lui e da altri: «Non è vero che i processi di via D’Amelio sono stati inutili. Ventidue persone sono state condannate in via definitiva e si è accertato che la strage non fu solo voluta dalla mafia, per vendicarsi dell’esito negativo del maxiprocesso in Cassazione. Abbiamo accertato parte della verità; ci fu sicuramente un protagonismo dei macellai di Cosa nostra, ma ebbero rilevanza anche finalità altre inquadrabili in logiche di prevenzione, di terrorismo, di politica». Di Matteo spiega così che in ogni delitto eccellente non c’è mai un movente unico. Del resto l’accelerazione della volontà stragista di Cosa nostra, a soli 57 giorni dall’uccisione di Falcone a Capaci, depone nella direzione della presenza di mandanti esterni alla mafia.
Senza entrare nel merito del processo in corso a Palermo, Di Matteo ricorda comunque che l’esistenza della trattativa è stata confermata quest’anno dalla sentenza della Corte d’Assise d’Appello di Firenze che ha confermato l’ergastolo a carico di Francesco Tagliavia per la strage di via dei Georgofili, avvenuta nel capoluogo toscano il 27 maggio del 1993. Cosa nostra si rese conto di come le bombe pagassero a proprio favore e la trattativa ebbe quindi un effetto moltiplicatore della volontà stragista di Riina.
E se la mafia ha nel suo Dna la ricerca del contatto continuo e permanente con lo Stato, secondo il magistrato palermitano bisogna avere la forza di ricercare, perseguire e sanzionare le condotte dei funzionari corrotti e collusi. I numerosi processi svolti a Palermo nei confronti di uomini e ufficiali delle forze dell’ordine dimostrano che, fino a quando nel nostro Stato sarà in grado di processare sé stesso, la battaglia contro la mafia può essere vinta.
Di Matteo respinge anche l’idea che vi sia stato un fallimento di alcuni processi, ai termini dei quali non è stata dimostrata l’inesistenza dei fatti ricostruiti dalle indagini della Procura di Palermo, quanto la mancata rubricazione degli stessi come reati. I fatti sono stati accertati come erano stati rappresentati dall’accusa, ma a spiegazione degli stessi sono state addotte altre ragioni, come nel caso della mancata perquisizione del covo di Riina a Palermo o nella mancata cattura di Provenzano nelle campagne di Mezzojuso.
«Non so se continua la trattativa tra Stato e mafia, ma sono certo che Cosa nostra continuerà a cercare il dialogo con chi governa, con chi comanda. Ecco perché colpisce la sottovalutazione dei rapporti tra mafia e politica, nonostante quanto ci hanno dimostrato gli esiti dei processi ad Andreotti e Dell’Utri o le condanne di Cuffaro e Lombardo. Le pene previste dal 416 ter sono inferiori a quelle previste dal 416 bis e così si finge di non capire che lo scambio tra politica e mafia è ben più pericoloso della semplice appartenenza all’organizzazione mafiosa».
Dopo due ore, quando l’iniziativa volge al termine, nel silenzio di un pubblico attento fino alla fine, Di Matteo ricorda a tutti che la lotta alla mafia è una questione di libertà, di democrazia e per questo non bisogna perdere la capacità di indignarsi e si deve continuare a mantenere l’esempio dei tanti caduti. I “nostri morti” li chiama il magistrato e partono gli applausi.
Il pubblico ora è in piedi per tributare l’ultimo omaggio a Di Matteo. In prima fila, visibilmente commossi i nipoti e le sorelle di Eddie. Loro hanno avuto modo di incontrare Di Matteo in privato, prima della manifestazione; le parole di stima e affetto che si sono scambiate restano affidate ai loro cuori.
Cala la sera su Muggia, alle porte di Trieste, periferia del regno.
Da qui è partito Eddie Walter Cosina.
Via D’Amelio e la periferia dei media a Caltanissetta
Se Paolo Borsellino fosse vivo…
Paolo Borsellino, ventidue anni senza la verità
Trackback dal tuo sito.