Antimafia, tra vecchie liturgie e nuove sfide
Siamo all’indomani del ventiquattresimo anniversario della strage di Capaci e nei giorni del ricordo di un’altra strage, spesso rimossa e fin troppo dimenticata, ma altrettanto cruciale nella storia recente del nostro Paese, quella di via dei Georgofili a Firenze, avvenuta nella notte tra il 26 e il 27 maggio del 1993.
Eppure, anche nel doveroso e necessario ricordo di chi ha sacrificato la vita per lo Stato e la democrazia, in queste giornate non è stato possibile sottrarsi ai fiumi di retorica che hanno inondato schermi e pagine, tanto meno alle cerimonie stucchevoli e spesso trasformate in passerelle per vip o presunti tali, tanto da far emergere prepotentemente in molti di noi l’amara impressione che si stia perdendo di vista il messaggio più autentico, lasciatoci in eredità da Giovanni Falcone.
Recensendo “Dieci anni di mafia”, la prima edizione di un volume che ha avuto lunga vita con diverse integrazioni e scritto dal valente collega Saverio Lodato, una delle memorie storiche del giornalismo siciliano, il magistrato ucciso il 23 maggio del 1992 scriveva così: «Non si è allora lavorato invano in questi anni difficili. L’iniziale impegno di pochi ha costretto le istituzioni e le società a guardare in faccia la realtà di un fenomeno criminale destabilizzante, troppo a lungo minimizzato, ed è valso ad aprire un varco, a creare una testa di ponte che ha resistito, con gravi perdite e tra enormi difficoltà, a una pesante controffensiva. Adesso, fortificati dalle esperienze nel bene e nel male acquisite, è tempo di andare avanti, non con sterili declamazioni e non più confidando sull’impegno straordinario di pochi, ma con il doveroso impegno ordinario di tutti in una battaglia che è anzitutto di civiltà e può e deve essere vinta».
Quanto ci sarebbe piaciuto potere dire che “non si è allora lavorato invano in questi anni difficili” e che oggi siamo “fortificati dalle esperienze nel bene e nel male acquisite”, perché istituzioni e società marciano insieme contro i poteri forti delle mafie e della corruzione.
Non ci pare purtroppo che le esperienze acquisite in oltre vent’anni siano la cartina di tornasole delle scelte che vengono quotidianamente assunte nel vasto arcipelago dell’antimafia, tanto istituzionale quanto civile.
Quanto sarebbe stato bello poterci dire che il peggio è passato, che le mafie sono sconfitte, che non ci sono mai state trattative, che il concorso esterno è un reato che non esiste e che il nostro è il migliore dei mondi possibile.
Quanto ci sarebbe piaciuto non assistere lo scorso 23 maggio a “sterili declamazioni”. E invece tutti pronti a salire in cattedra per spiegarci che l’antimafia va praticata e non dichiarata, che servono fatti e non parole.
E via di questo passo, perdendo il senso del ridicolo e finendo anche per accomunare, in modo strumentale e capzioso, le inchieste giudiziarie – che riguardano personaggi che in nome della legalità si sono costruiti fraudolentemente una patente di eroi nazionali oppure hanno utilizzato fondi pubblici per fini privati – ai percorsi educativi nelle scuole o alle manifestazioni nelle piazze, dove i protagonisti sono i familiari delle vittime e i ragazzi e le ragazze di un Paese che non si rassegna ma s’indigna.
E ancora, quanto sarebbe stato bello poter ringraziare Falcone e gli altri caduti, dedicando alla loro memoria il “doveroso impegno ordinario di tutti” nella lotta alle cosche mafiose, capace di superare rivalità e fazioni per arrivare all’obiettivo comune.
E invece, purtroppo non è così.
Oggi siamo costretti a subire la strumentalizzazione del ricordo, della memoria, in nome della buona riuscita di una manifestazione ripresa dalle telecamere del servizio pubblico che, per fortuna, continua a dare prova di sé utilizzando altri spazi per l’approfondimento e l’informazione.
Oggi assistiamo alla retorica della legalità “a 360 gradi”, senza che nessuno spieghi alla pubblica opinione che la legalità è un mero strumento e che l’obiettivo resta la giustizia sociale, chimera ancora irraggiungibile alle nostre latitudini.
Ci tocca così di vedere passare in silenzio la nuova assoluzione del generale Mori per la mancata cattura da parte del Ros di Bernardo Provenzano nelle campagne di Mezzojuso.
Pardon, quasi in silenzio: infatti, non sono mancati i commenti autorevoli che hanno tracciato gli scenari futuri di questa decisione sui processi ancora in corso, spingendosi a prefigurare il fallimento del processo sulla trattativa, con la quasi certa assoluzione in quella sede di uomini e apparati dello Stato. E poi anche di quello sulla strage di via D’Amelio: così, se non sarà dimostrata la trattativa, Borsellino resterà confinato in ruolo di vittima prestabilita e voluta da Cosa nostra, in una mera logica interna di vendetta.
Signori e signore, questo ci attende nei prossimi mesi, altro che commemorazioni..
Scordiamoci la verità sul biennio 1992/1993, dimentichiamo la possibilità di recidere una volta per tutte, con forza, il legame inscindibile tra mafie e corruzione.
Chi si oppone alle future e progressive sorti è solo un nemico del Paese, uno che non vuole lasciarsi alle spalle morti e feriti per guardare avanti.
Facciamo outing allora, in tempi non sospetti: non vogliamo dimenticare, non possiamo dimenticare e non ci accontenteremo delle verità ufficiali o presunte tali. Ne abbiamo viste e lette troppe in questi anni per credere nella loro giustezza.
E statene certi, nei prossimi mesi ripartirà con più virulenza l’attacco all’antimafia sociale e civile, Libera in primis.
Perché Libera è un’anomalia che deve essere eliminata dallo scenario italiano, perché è la realtà che in oltre vent’anni ha raggiunto e perseguito obiettivi importanti ma anche scomodi: promuovere cultura e formazione antimafia a partire dal dettato costituzionale; favorire l’utilizzo sociale dei beni confiscati alle cosche; superare l’emotività dei momenti drammatici per costruire cittadinanza e partecipazione; accompagnare i familiari delle vittime nelle aule dei tribunali e nelle stesse aule costituirsi parte civile per chiedere verità e giustizia.
Tutto questo non è più politicamente corretto nel frangente storico attuale in cui la retorica del “Paese normale” torna a fare capolino.
Oggi, a differenza pure di un recente passato, si sono create condizioni tali che possono vanificare quanto finora fatto. Nel silenzio della pubblica opinione.
Quando Falcone scriveva di “una testa di ponte che ha resistito, con gravi perdite e tra enormi difficoltà, a una pesante controffensiva” si riferiva ovviamente all’esperienza del pool dell’Ufficio istruzione del Tribunale di Palermo, ma le stesse parole possiamo legittimamente estenderle, oltre che al lavoro dei giudici, anche all’impegno dei movimenti dell’antimafia sociale e civile lungo l’arco di questi decenni.
Ecco perché siamo preoccupati di quello che avviene all’interno della magistratura.
Ecco perché non vogliamo che si rinunci a perseguire l’essenza del fenomeno mafioso: il rapporto con il potere.
Ecco perché guardiamo con preoccupazione tutte le volte in cui prima di chiedere coerenza agli altri compagni di viaggio, si rinuncia all’intransigenza nei propri confronti e si accetta tutto in nome del fine ultimo da raggiungere.
Sapevamo che la strada tracciata prima da Libera e poi continuata, con i suoi limiti, anche da Libera Informazione sarebbe stata difficile e che agli applausi e ai consensi sarebbero subentrati gli attacchi e le gelosie.
I compagni di viaggio straordinari che abbiamo avuto, da Roberto Morrione a Santo Della Volpe, ci richiamano oggi più che mai alla necessità di non abbassare mai la guardia ma di continuare a vigilare perché non prevalgano rassegnazione e sfiducia – “tanto sono tutti uguali, sono tutti professionisti dell’antimafia” abbiamo letto e sentito – e perché si continui a lavorare per un Paese senza mafie e senza corruzione.
Non chiedeteci scorciatoie e alternative perché non sono praticabili.
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