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La criminalità, cancro della democrazia

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Accompagnato dalla consueta dose giornaliera di pessimismo (dopo aver letto i consueti avvilenti fatti di cronaca del giorno sui diversi quotidiani locali) eredità anche di esperienze professionali pregresse, rifletto ancora sul fatto che nel nostro paese (e in molti altri) le radici stesse della democrazia rischiano di saltare se si lascia campo libero alla criminalità o, comunque, sottovalutandola, non la si contrasta adeguatamente. Non voglio, naturalmente, spaventare nessuno né togliere fiducia e speranza. Cerco soltanto di aiutare a prendere coscienza del problema nella giusta misura, a non sottovalutarlo, a non pensare che a combatterlo sia solo responsabilità di altri, degli specialisti, delle istituzioni. La criminalità sta scavando dentro le istituzioni come un cancro che può essere fermato e circoscritto ma se non si aggredisce a tempo e con le giuste terapie può invadere, cellula dopo cellula, l’organismo intero. Non stiamo esagerando: certi comportamenti all’apparenza innocui, certi  “peccatucci veniali”, certe tolleranze o debolezze nei confronti di chi li adotta possono, sommati a quelli di tanti altri, fornire un ottimo terreno di coltura per la grande criminalità. I delitti eclatanti, le violenze diffuse, che di quando in quando scuotono le nostre coscienze e ci addolorano o ci indignano, non sono soltanto il prodotto estemporaneo e isolato di menti malate e criminali; più spesso sono la punta tragicamente emergente di un iceberg compattatosi grazie all’aggregazione di una miriade di comportamenti non necessariamente criminali, anche solo illegali, anche solo sconsiderati o scorretti. Se vogliamo fare un esempio, si pensi alla formidabile opportunità che diamo ai criminali quando eleggiamo un politico, un amministratore, corrotto o ricattabile, quando gli diamo il nostro voto in cambio di un favore o della sua “protezione”, senza valutare di chi si tratti in realtà; quando facciamo affari con qualcuno che ci conquista con il suo denaro e non sottilizziamo sulla sua provenienza; quando, cinicamente, diamo lezioni di savoir faire a qualche giovane troppo ingenuo o entusiasta o zelante; quando chiudiamo gli occhi e le  orecchie per non vedere e non sentire ( anche a costo di rimetterci qualcosa), per non turbare la nostra tranquillità, per pigrizia, per la sfiducia nelle istituzioni. Quelle istituzioni di cui lamentiamo le carenze, senza però attivarci per poterle migliorare. Chi di noi non è incorso in qualcuna di queste debolezze. E non calcoliamo, poi, i comportamenti decisamente delittuosi che pure vengono assunti non certo come libera scelta semplicemente dettata dalla perversità. Chi ha pratica di delinquenti sa bene quanto siano falsi i pregiudizi su una loro supposta diversità dalla gente cosiddetta normale; sa bene come, per lo più, si arrivi ad un reato grave attraverso tutta una serie di passaggi, talvolta obbligati, cui gli individui sono sottoposti come parti integranti di una struttura (questa sì, perversa) che, a sua volta, funziona perché inserita in un’altra, che le lascia spazi e opportunità di sviluppo. I processi in Italia, da quelli di Tangentopoli a Mafia Capitale che hanno messo a nudo i rapporti tra mafia e politica, le inchieste giudiziarie anche di questi ultimi tempi sugli scandali della sanità in Lombardia, dovrebbero pur averci insegnato qualcosa. E’ vero che i richiami di carattere morale o civico sono spesso completamente inutili, ma, forse, un’ampliarsi della conoscenza può generare una maggiore consapevolezza e rafforzare il sentimento delle nostre responsabilità; può farci vedere i nostri atti quotidiani, per quanto limitati e apparentemente innocui, in connessione con le conseguenze più lontane che possono generare. Questo sentire più a fondo e questo vedere più lontano può aiutarci a migliorare il nostro vivere concreto.

 

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