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Il rimpallo in Parlamento sul delitto di tortura

Piero Innocenti il . Istituzioni

L’approvazione, più di due anni e mezzo fa, in Senato, del disegno di  legge che doveva introdurre nel codice penale il reato di tortura era sembrata una buona notizia. Il provvedimento era passato alla Camera e tutto lasciava pensare che, entro poco tempo, sarebbe stata finalmente colmata una grave lacuna giuridica adeguando l’ordinamento italiano a quello internazionale. Era anche il doveroso riconoscimento a tutte quelle persone di varia estrazione politica che da anni lottano per garantire il rispetto delle persone, ovunque si trovino. In realtà, da allora, si è assistito ad un vergognoso rimpallo del progetto di legge tra i due rami di un Parlamento sottoposto alle “pressioni” di vari “segmenti” delle forze di polizia e di politici interessati ai loro voti. Nel frattempo, le ultime notizie sulla morte violenta di Stefano Cucchi per la quale sono indagati alcuni carabinieri e, prima ancora, la sentenza della Corte Europea per i Diritti dell’Uomo del 7 aprile 2015 con cui il nostro paese è stato condannato per le violenze commesse dalle forze dell’ordine al G8 di Genova, hanno riacceso i riflettori mediatici sul reato di tortura che ancora non trova posto nell’ordinamento italiano.

Con il testo normativo si dovrebbero introdurre nel codice penale gli articoli 613 bis (reato comune) che disciplina la tortura e 613 ter (reato proprio). che sanziona la condotta del pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio che istiga altri pari qualifica alla commissione del delitto. Nella prima ipotesi è prevista la reclusione da quattro a dieci anni con una serie di circostanze aggravanti ad effetto comune, speciale e ad efficacia speciale, a seconda che si siano causate lesioni personali gravi, gravissime  o addirittura la morte della persona offesa. Per l’istigazione la pena va da uno a sei anni di carcere. Il reato di tortura verrebbe inserito tra quelli per i quali i termini di prescrizione sono raddoppiati mentre è previsto il divieto di espulsione, respingimento ed estradizione dello straniero verso paesi ove possa essere oggetto non solo di discriminazioni ma anche di tortura.

La tortura è stata definita in modo circostanziato dall’articolo 1 della Convenzione delle Nazioni Unite (New York, 10 dicembre 1984), come “qualsiasi atto con il quale sono inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da questa o da una persona informazioni o confessioni, di punirla per u atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla o di far pressione su di lei (…) qualora tale dolore o sofferenza siano inflitte da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione o con il suo consenso espresso o tacito”. Continuiamo a non brillare per celerità nel recepimento di normative sovranazionali. Basti pensare che a distanza di ventitre anni dalla sottoscrizione della citata Convenzione (con la legge 498/1989), l’Italia, soltanto nell’ottobre 2012, ha ratificato il Protocollo opzionale delle Nazioni Unite contro la tortura che istituiva un sistema di controlli nei luoghi di privazione della libertà. Tuttavia, contrariamente a quanto indicato nella Convenzione, nel nostro paese si sta cercando di introdurre non il “reato specifico” di tortura riguardante esclusivamente i funzionari pubblici ma il “reato comune” riferito a “chiunque, con violenze o minacce gravi cagioni…intenzionalmente acute sofferenze fisiche o psichiche ad una persona a lui affidata…”. Tutelare i diritti umani delle persone private della libertà e affidate alla autorità pubblica ma anche quelli della dignità e dell’onore delle forze di sicurezza, è un imperativo inderogabile e il Parlamento non deve lasciarsi condizionare da indebite pressioni dei corpi della sicurezza. Troppi gli episodi di pestaggi, molestie sessuali, minacce di morte, ingiurie verbali, costrizioni alla nudità, registrati nel tempo in luoghi di detenzione o di fermo di persone. Punire severamente chi, intenzionalmente, umili, offenda, degradi un’altra persona, deve corrispondere ad un preciso obbligo giuridico ma deve essere anche un importante messaggio simbolico per un paese, come il nostro, che dichiara di essere civile.

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