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Dall’omicidio Piccolino al delitto di Don Cesare Boschin: “Troppa fretta con la mafia”?

di Andrea Palladino il . L'analisi

Dell’omicida di Mario Piccolino “non si sa proprio niente”, ha spiegato ieri in un editoriale il direttore di “Latina Oggi”, Alessandro Panigutti. Non ci sono elementi per tirare in ballo la camorra, spiega in sintesi il giornalista, con il titolo fin troppo chiaro “Troppa fretta con la mafia”. Qualche giorno fa lo stesso quotidiano titolava in prima pagina indicando per questo delitto la “pista personale”. La camorra non c’entra, dunque? Per rafforzare questa tesi Panigutti rispolvera il caso dell’omicidio di don Cesare Boschin, il parroco di Borgo Montello ucciso nella sua canonica nel 1995. E – suggerisce il direttore di “Latina Oggi” – anche in quel caso la mafia non c’entrava nulla. La morte di don Boschin, scrive, sarebbe dovuta ad una sfortunata coincidenza: “Probabilmente urlando per attirare l’attenzione – si legge nell’editoriale pubblicato sabato scorso – era rimasto soffocato dalla dentiera”. Non solo, Panigutti aggiunge sostanzialmente che il “mito” di don Cesare Boschin vittima della mafia sia stato creato ad arte dalla “costola pontina di una importante associazione” (ovvero Libera, i nomi vanno fatti, seguendo la vecchia regola delle cinque W). Un’accusa pesante, che mostra come il clima a Latina si prepari a diventare caldissimo.

Mettiamo da parte, per un momento, la questione dell’avvocato Piccolino. Ne riparleremo.

Su don Boschin Panigutti spiega che “non sappiamo se abbia mai pronunciato la parola mafia”. Dimentica di aggiungere qualche dettaglio, messo da parte nella foga di accostare le due morti. Non ci sono dubbi che le indagini per quella morte furono frettolose, condotte malissimo, con la voglia irrefrenabile di chiudere velocemente. Il fascicolo venne archiviato dopo pochissimi mesi.  Latina negli anni ’90 era il luogo dove tutte le inchieste per i traffici di rifiuti sparivano negli archivi, lo ricordiamo, erano gli anni della penetrazione ormai consolidata delle mafie nella capitale pontina, quando il clan dei casalesi disponeva di almeno trenta uomini, da Sabaudia alla capitale, come avrebbe spiegato un anno dopo l’omicidio di don Boschin, Carmine Schiavone. Erano gli anni del boom degli investimenti mafiosi in provincia di Latina, quando i fratelli Tripodo accoglievano i casalesi mettendo le posate d’oro sulle tavole. E, per completare il quadro, era l’epoca in cui la camorra poteva tentare il colpo grosso, puntando alla fondazione di una banca tra Cassino e Formia, come raccontano le indagini svolte nel 1996 dalla Criminalpol romana. A Borgo Montello, intanto, la famiglia Schiavone comprava terre e fattorie proprio a ridosso della discarica, quella collina immonda che ha distrutto la vita di decine di agricoltori della zona.

Panigutti getta poi un pizzico di fango nella biografia di don Cesare, ricordando come “la discarica dava da mangiare a più di qualcuno dei suoi parrocchiani, magari per intercessione di Santa Romana Chiesa”. D’altra parte è ben noto che i monnezzari finanziano tutti, parrocchie, partiti, associazioni, squadre di calcio e giornali. Ma accanto ai parrocchiani intenti a mangiare alla tavola della discarica, vi erano altri che si opponevano duramente. Come ci sono oggi famiglie che hanno dedicato la vita e l’anima alla denuncia continua del disastro ambientale, umano e sociale che si è consumato a Borgo Montello. Persone dimenticate, molto spesso, dalle cronache dei giornali, molto più attenti a quel che avviene nel palazzo.

L’editoriale di Panigutti conclude bollando la morte di don Cesare Boschin come accidentale, provocata probabilmente da un balordo alla caccia di soldi. “Troppa fretta con la mafia”. Per il parroco di Borgo Montello vale quella verità di comodo fatta circolare negli anni ’90 dagli investigatori: nessun nesso con la criminalità organizzata. Una “pista personale”.

Alessandro Panigutti – che è un ottimo cronista – ha messo da parte in questo caso una delle regole d’oro del giornalismo d’inchiesta: le versioni ufficiali sono spesso mediazioni, che noi abbiamo il dovere di mettere in discussione. Sempre. Io e un altro collega di Latina, Clemente Pistilli, abbiamo chiesto più volte di accedere agli atti dell’inchiesta sulla morte di don Cesare Boschin. La risposta dalla Procura di Latina è sempre stata negativa: quelle carte non si possono leggere.  Facesse un tentativo anche “Latina Oggi”, portando fino in fondo la tesi della morte accidentale. Mostrando, però, le prove.

Quella “verità” fatta circolare dopo la morte di don Boschin si scontra con i fatti riportati all’epoca, che danno un quadro ben differente da quello riportato da Panigutti. Le cause della morte, ad esempio. Dall’Agenzia di stampa “Ansa”: “L’ autopsia ha consentito di rilevare che il sacerdote ha ingoiato la protesi dentaria quando i rapinatori lo stringevano col bavaglio e col cerotto sulla bocca”. E’ vero che è morto soffocato, ma grazie alla costrizione che ha subito, dopo essere stato legato mani e piedi con il nastro adesivo. E ancora: “I carabinieri hanno trovato 800 mila lire riposte nel taschino di un cappotto (..,) sono stati lasciati oggetti di valore come un orologio d’ oro e un calice d’ argento”.

Che balordi strani, che rapinatori distratti. I carabinieri, che avevano probabilmente tanta fretta nel chiudere quel caso, relegandolo ad una storia di rapina finita male, spiegavano la mancata sottrazione dei soldi come la conseguenza di una sorta di panico per la morte del sacerdote. Ma qualcosa in realtà sparì dalla canonica: “Due agende – si legge sempre su una notizia dell’Ansa del 1995 – dove don Cesare Boschin annotava le sue cose più importanti, sarebbero sparite dalla canonica. Lo avrebbero accertato oggi gli investigatori nel corso di un minuzioso sopralluogo fatto nell’abitazione del sacerdote”. E’ uno strano panico quello dei molto presunti rapinatori: lasciano i soldi e prendono le agende. Forse anche questi “dettagli” dovevano essere ricordati dal bravo cronista Alessandro Panigutti.

Un’ultima notazione sul caso della morte dell’avvocato Piccolino. Non è vero che non sappiamo nulla, come suggerisce “Latina Oggi”. Sappiamo che è stato sparato un unico colpo, direttamente sulla fronte. Sappiamo che il killer si è allontanato tranquillamente, sparendo come un fantasma nelle vie di Formia. Sappiamo che non era un cliente (“Io non ti conosco” avrebbe gridato Piccolino prima di essere colpito, secondo la testimonianza dell’ingegnere che condivideva lo studio con l’avvocato ucciso). Sappiamo che molto probabilmente non è di Formia, visto che nonostante la squadra mobile abbia in mano le immagini delle telecamere l’autore non è stato ancora individuato. E, soprattutto, sappiamo dove è avvenuto quell’omicidio. In una città chiamata “provincia di Casale”.

Piccolino non va santificato, la sua era una vita sicuramente difficile e non sempre lineare, come raccontano i tanti che lo hanno conosciuto. Sul suo blog attaccava i giornalisti, anche con pesanti allusioni. Ma quel colpo di calibro 38 che lo ha ucciso di “personale” aveva probabilmente molto poco. Anche volendo ipotizzare la vendetta per uno “sgarro” dobbiamo chiederci chi è in grado di far arrivare a Formia un killer freddo e lucido. Di fronte a questi elementi il procuratore di Roma Pignatone non ha avuto dubbi, accettando di seguire il caso con il coordinamento della Direzione distrettuale antimafia. Anche questo è “troppa fretta con la mafia”?

 

 

 


Andrea Palladino, giornalista freelance e documentarista, collabora con L’Espresso e Il Fatto Quotidiano. Ha realizzato inchieste e reportage per Il Manifesto ed è stato cronista per Il Messaggero. Ha pubblicato Trafficanti. Sulle piste di armi, veleni e rifiuti (Laterza, 2012). E’ co-fondatore di Toxicleaks.org,  piattaforma per aggregare contenuti e data journalism sulle rotte dei veleni: dalle Navi a perdere alla Terra dei fuochi.

 

 

 

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