Francesco Marcone, l’Ambrosoli del Sud
Responsabile dell’Ufficio del Registro di Foggia fu ucciso 20 anni fa// – Cerco di immaginarmelo Francesco Marcone mentre decide. Seduto alla sua scrivania, con una pila di pratiche davanti a sé, la porta della stanza chiusa. Sa già che non può lasciar perdere, ma cerca una giustificazione razionale al suo istinto di onestà, forse presagendo le possibili conseguenze della sua scelta. Provo a immaginare che queste ragioni le trovi nella foto dei suoi figli, negli atti che ha firmato come direttore dell’Ufficio e poi dentro di sé. Decide, con la ragione e con l’istinto, di non rimanere in silenzio e di andare fino in fondo. Francesco Marcone era un mio collega, responsabile dell’Ufficio del registro di Foggia. Il 22 marzo del 1995 presentò un esposto alla Procura della Repubblica per denunciare un giro di malaffare messo in atto da falsi “mediatori” che garantivano, dietro pagamento, il rapido disbrigo di pratiche d’ufficio. Truffe, reiterate e redditizie. Con una lettera di suo pugno, avvertì della circostanza anche tutti i professionisti della città: «L’ufficio non si avvale di figure intermediarie ma provvede alle comunicazioni ed alle notifiche direttamente ai soggetti interessati», scrisse, e commuove, a leggerlo ora, questo rassicurante burocratese che conosco bene.
La lingua dei dipendenti pubblici, spesso complicata e distante, ma che ci fa sentire protetti, devo ammetterlo; c’è la Legge dietro le mie decisioni e la Legge deve essere rispettata. Nulla di personale. Poco più di una settimana dopo questa denuncia, il 31 marzo è stato ucciso nell’androne di casa sua con due colpi di pistola alla nuca. Aveva 57 anni, una moglie e due figli. Erano le 19.10 e Marcone rientrava, tardi, dall’Ufficio portando con sé alcune pratiche che stava studiando. Perché il direttore dell’Ufficio del registro di Foggia era un funzionario scrupoloso e dedito al lavoro, anche dopo aver timbrato il cartellino. Era un uomo che voleva vederci chiaro e con i suoi occhi, un dirigente che si prendeva le responsabilità del ruolo. Studiava atti di importi miliardari e se vedeva qualcosa di sporco non faceva finta di niente. L’emozione offre facile sponda alla retorica, ma Marcone, per come ce lo tramandano i ricordi di chi lo ha conosciuto, era una persona semplice e tranquilla. A chi lo definiva un eroe – l’Ambrosoli del Sud, secondo la stampa di allora – avrebbe risposto che aveva solo fatto il proprio dovere. E fa rabbia pensare come in certi momenti storici e in certe realtà, fare il proprio dovere diventi una sfida. Marcone ha dato uno schiaffo in pieno viso a chi – dipendenti pubblici, faccendieri e criminalità organizzata – gestiva il malaffare in un clima di omertà e paura. A chi pensava che lo Stato fosse cosa sua e potesse svenderlo al miglior offerente, senza rischiare nulla.
Teniamocela stretta la memoria di quest’uomo. Facciamone tesoro contro i «faccio quello che devo fare, prendo il mio stipendio e vivo tranquillo»; contro i «tanto non cambia niente». Foderarla di cinismo è il modo migliore per quietare la coscienza. È questo fatalismo molto italiano – che, certo, anche uno Stato spesso distratto e arrogante ha contribuito a consolidare – che ha fatto tradurre a qualcuno il whistleblowing, da poco inaugurato all’Agenzia delle entrate, con il termine “delazione”. Ma è un delitto verso i cittadini e noi stessi far passare da mediocre spia chi ha il coraggio – perché di coraggio si tratta – di mettere a repentaglio la proprio tranquillità personale per rispettare gli obblighi di onestà che derivano dal suo incarico.
Non c’è niente di mediocre in questo, si tratta invece di un gesto straordinario e normale insieme, che cambia le cose in modo irreversibile, diventa esempio e si propaga. E chi ha la tentazione di inquinare una simile impresa facendo passare la denuncia per tradimento, si ricordi di Francesco Marcone, medaglia d’oro al valore civile, padre di famiglia, funzionario pubblico e vittima del dovere. Il direttore dell’Ufficio del registro di Foggia che aveva ottenuto da soli quattro anni questo prestigioso incarico e voleva dimostrare di meritarlo.Cerco di immaginarmelo, la sera del 31 marzo 1995, mentre si alza dalla scrivania. Si stringe gli occhi con il pollice e l’indice, infila la giacca, si avvicina alla porta e spegne la luce dell’Ufficio in cui non entrerà più. Ecco, cerchiamo di tenerla accesa noi la luce di quell’Ufficio. E di non farla mai spegnere.
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