I boss disposti a tutto pur di evitare il carcere
C’è il killer dei Casalesi Peppe Setola «’O cecato» che viene spostato dal carcere di Milano alla clinica Maugeri di Pavia perché si spaccia per non vedente, salvo poi evadere e commettere decine di omicidi. Il referente romano della Camorra Michele Sense «’O pazzo» ritenuto secondo numerose perizie «incapace d’intendere e di volere» che però dall’ospedale psichiatrico in cui è ricoverato ordina un omicidio per vendicare la morte del fratello. E ancora, il killer di Cosa nostra Agostino Badalementi che quando lo arrestano con la pistola in mano ancora calda si rivolge agli agenti dicendo «voglio la mamma». Un ritornello ripetuto nel tempo come una cantilena che gli apre per alcuni anni le porte di un manicomio giudiziario per poi essere scarcerato e diventare il nuovo capo del mandamento palermitano di Porta Nuova. La lista è ancora lunga, con alcuni casi anche recenti. Alessandro Bonaccorsi, giovane e rampante boss di un clan catanese, secondi i magistrati, pur di evitare il carcere e garantirsi la libertà, con la complicità di un medico, nel 2012 avrebbe addirittura dovuto simulare un ricovero d’urgenza per essere operato al pancreas così da risultare incompatibile con il regime carcerario e poter tornare a gestire gli affari.
Malattie e follia hanno un legame antico con le mafie. Padrini e giovani gregari sono disposti davvero a tutto pur di evitare il carcere e lo spettro del 41bis. Perdere il contatto diretto con i propri affari e con il territorio in cui impongono il loro ruolo rappresenta il problema principale. Lo scoglio da aggirare per mantenere rispetto e potere. Per farlo, le cronache giudiziarie degli ultimi decenni hanno rivelato un sistema di complicità che coinvolge psichiatri, avvocati e periti sanitari. Colletti bianchi e professionisti che decidono di mettere al servizio della mafia anni di studio e di competenze acquisite in un sistema altamente corrotto in cui i mafiosi da soli non riuscirebbero.
L’esperienza però, con il passare degli anni se la sono fatta. Vittorio Mangano, lo stalliere di Arcore emissario di Cosa nostra a Milano, ad esempio, per allungare la permanenza in corsia si sottoponeva a delle punture che gonfiavano le gambe. Degno di un manuale medico sono i racconti che fa ai magistrati il pentito Francesco Marino Mannoia, “il chimico” della mafia siciliana: «Per ottenere un caso di ulcera perforata bisogna mangiare banane e ingerire pillole di ferro, così le feci cambiano colore. Una iniezione endovena di camomilla provoca febbre alta, vomito e convulsioni. Le pillole per diete dimagranti provocano l’alterazione del battito cardiaco» Tutti espedienti ovviamente finalizzati ad ottenere ricoveri d’urgenza in strutture esterne al carcere.
Tra i capitoli più sconcertanti per descrivere questo collaudato sistema c’è quello che ha come protagonista Silvio Balsamo, un semi-sconosciuto boss catanese. Condannato nel 2000 a vent’anni di carcere per un omicidio commesso negli anni novanta, Balsamo all’epoca risulta affetto da siringomielia dorsale, una malattia che lo costringe semi paralizzato su una sedia a rotelle. Dalle fredde celle per i detenuti viene spostato al centro d’eccellenza emiliano di Montecatone dove viene preso in cura per la riabilitazione, fino al 2006, da uno dei principali specialisti in materia, il dottore Mauro Menarini. Anche Balsamo è però un simulatore. Nel 2008, quando era già stato trasferito ai domiciliari, viene fermato a un posto di blocco alla guida di una normalissima automobile mentre nel 2010 durante una perquisizione nella sua abitazione vengono trovati all’interno di un computer dei video in cui incredibilmente il killer si alzava dalla sedia a rotelle come se nulla fosse intrattenendosi addirittura in balli caraibici con alcune amiche. Morirà suicida nel giugno 2011 con lo specialista che finirà sotto indagine perché accusato di aver redatto perizie false.
(Tra le fonti: Mafia da legare / De Rosa – Galesi).
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