NEWS

4 dicembre 2014

il . Rassegne

 

«Ho sempre cercato di saldare la terra al cielo», mi dice don Luigi Ciotti allargando le braccia un po’ sconsolato. Questa mattina a Milano l’Università Statale conferisce una laurea honoris causa in Comunicazione pubblica e d’impresa a lui, a don Gino Rigoldi e a don Virginio Colmegna: e questo va bene, ovviamente. Quello che non va bene è che hanno appiccicato, a lui e agli altri due laureandi, l’etichetta di «preti di strada». «Non chiamateci preti di strada!», dice don Ciotti: «Siamo preti e basta. Ogni ulteriore qualifica – preti antimafia, preti antidroga eccetera – è di troppo».

Sono anni che lo descrivono un po’ così. Anche in buona parte del mondo cattolico, don Ciotti è considerato un uomo molto impegnato nel sociale, nella lotta alla criminalità eccetera; insomma bravissima persona, ma più assistente sociale che prete. Molta umanità e poco Dio. Molta terra e poco cielo. Lui invece quello che fa te lo spiega sempre partendo dal Vangelo e da Dio: «Dire “preti di strada” non ha senso perché il Vangelo e la strada sono inseparabili. Nella parola prete è implicita la parola strada! “Preparate la strada del Signore”, dice il Vangelo di Marco. La strada è incontro con Dio e incontro con le persone, è la saldatura di terra e cielo», appunto.

«Vivere il Vangelo», mi dice, «non vuol dire soltanto insegnare e osservare la dottrina. Vuol dire prima di tutto incontrare e accogliere le persone, avendo come unico criterio i loro bisogni e le loro speranze. Io intendo così il Vangelo, e non posso che gioire del fatto che papa Francesco abbia voluto caratterizzare la “sua” Chiesa come una Chiesa in cammino, sulla strada, diretta nei luoghi più poveri e dimenticati». E per evitare possibili accuse di materialismo, precisa che la povertà non è solo quella economica: «Ci sono i poveri di risorse ma anche i poveri di senso. Ci sono le periferie geografiche e quelle dell’anima».

Nel 2015 la sua opera taglierà il traguardo del mezzo secolo. È Natale del 1965 quando il ventenne Luigi Ciotti fonda con alcuni amici un gruppo che si dà il nome di «Gioventù Impegnata». La vera sede è proprio la strada. Corso Gaetano Salvemini e le vie di Mirafiori Nord, quartiere operaio. Nel 1968, quando molti giovani inneggiano alla rivoluzione della politica, Luigi Ciotti pensa alla rivoluzione dei cuori e cambia il nome in «Gruppo Abele». Nel novembre del 1972 viene ordinato sacerdote dal cardinale Michele Pellegrino, un arcivescovo che si fa chiamare padre. «Come parrocchia mi affidò la strada e mi disse: ci andrai a imparare, non a insegnare».

Questa mattina incontrerà due preti molto simili a lui. «Con Gino ci conosciamo dai primi Anni Settanta. Ci occupavamo di carceri e sui nostri cartelli scrivevamo che delinquenti e disadattati non si nasce, lo si diventa. Ci aiutavamo come potevamo. Una sera andai a parlare a Langhirano e, alla fine, mi regalarono sei prosciutti. Il giorno dopo incontrai Gino che cercava risorse per aprire la prima comunità. Gli regalai un prosciutto e gli dissi: comincia da questo. Don Virginio Colmegna invece l’ho conosciuto all’inizio degli Anni Ottanta, quando a Milano era arrivato il cardinal Martini. Da allora non ci siamo mai persi di vista».

Come si potranno trovare tre soggetti come questi in un’Aula Magna in cui si «conferiscono» lauree magistrali, è facile da immaginare. Don Ciotti è riconoscente ma anche un po’ imbarazzato. Gli chiedo che cosa dirà davanti a tanti professoroni: «Dirò che più che in scienza della comunicazione mi sento laureato in scienza della confusione. Ho una chiara coscienza dei miei limiti… Ma due cose credo che le aggiungerò. La prima è che la comunicazione è una cosa importante anche per noi che ci occupiamo di problemi sociali, ma è pur sempre un mezzo, non un fine. Oggi c’è una grande enfasi sul comunicare, spesso però direttamente proporzionale alla povertà dei contenuti».

E la seconda cosa? «Che il fine della comunicazione sono le persone. Ma non le persone come potenziali clienti, consumatori o proseliti. Le persone come domande di sapere, come bisogni inespressi, come diritti non tutelati. Come soggetti di dignità e di libertà. Qui sta l’etica della comunicazione e qui sta anche il futuro della nostra democrazia».

Articolo di Michele Brambilla su La Stampa | 4 dicembre 2014

****
Le mafie romane che speculano sui cittadini /L’intervista a Gabriella Stramaccioni, ufficio di presidenza di Libera

Siamo nella ex fabbrica di periferia che da alcuni anni è la sede del Gruppo Abele e di Libera. Nell’ufficio di don Ciotti non è appesa la fotografia di qualche politico o magistrato, ma di un prete: don Tonino Bello, il vescovo di Molfetta scomparso nel 1993 per il quale la Congregazione per le cause dei santi ha avviato il processo di beatificazione. Le etichette degli scatoloni porta-documenti sembrano poi la prova perfetta della sua attività di saldatore fra terra e cielo. Su una è scritto «Battesimi matrimoni anniversari» e su un’altra «Mafie»; su una «Liturgie per i defunti» e su un’altra ancora «Aids tratta prostituzione». Follia, per don Ciotti, separare la fede nell’aldilà dalla realtà dell’aldiqua.

Un sistema di col­lu­sione e cor­ru­zione inquie­tante, che ha var­cato ogni limite: la divi­sione tra un cen­tro­de­stra mafioso, brutto e cat­tivo, e un cen­tro­si­ni­stra pulito è ormai una visione non vera». Gabriella Stra­mac­cioni, della pre­si­denza di Libera, cono­sce bene la poten­zia­lità delle mafie a Roma. Lo stu­pore quindi è limi­tato a certi nomi, come quello di Luca Ode­vaine, ex brac­cio destro di Vel­troni.

È rima­sta stu­pita dall’inchiesta che ha scosso la Capi­tale?
Que­sta inda­gine ha rive­lato ciò che tutti sanno da tempo. Un sistema che ha potuto esi­stere e con­so­li­darsi solo nella com­mi­stione forte con la poli­tica. Il pro­blema è capire da chi sono stati coperti. Il pro­cu­ra­tore Pigna­tone ha rac­con­tato di quanto hanno dovuto fati­care nelle inda­gini per­ché que­ste per­sone ave­vano messo in piedi difese molto forti. È evi­dente quindi che c’è troppa poli­tica che ha fatto finta di non vedere gli appalti, lo sman­tel­la­mento di ser­vizi, ecc.

Tra gli inda­gati anche la respon­sa­bile rom e sinti del Cam­pi­do­glio. E una rete di coo­pe­ra­tive che lavo­rano nell’accoglienza dei pro­fu­ghi…
La que­stione dell’immigrazione è spa­ven­tosa, ma lo è fin dall’origine, da quando il mini­stero degli Interni decise di sman­tel­lare i pic­coli cen­tri di acco­glienza per rifu­giati in favore di grandi agglo­me­rati, con­tro ogni logica di inte­gra­zione e di impatto sul ter­ri­to­rio. Una scelta indice di grossi appe­titi: abbiamo visto costi­tuirsi coo­pe­ra­tive appo­si­ta­mente per avere la gestione di que­ste strut­ture, a sca­pito della qua­lità dei ser­vizi. Con i Cara e i Cpt c’è stata una distor­sione del sistema dell’immigrazione, che ha coin­volto mala­mente tanti pezzi del pri­vato sociale. Sugli immi­grati si arric­chi­sce una dop­pia cri­mi­na­lità: quella della tratta, e quella che legal­mente gesti­sce pezzi di acco­glienza.

Un caso emble­ma­tico: coin­volto anche Sal­va­tore Buzzi, pre­si­dente della Coo­pe­ra­tiva (rossa) 29 giu­gno…
Un fatto molto pre­oc­cu­pante per­ché quella coo­pe­ra­tiva era par­tita come una bella espe­rienza, con il rein­se­ri­mento lavo­ra­tivo di ex dete­nuti. Abbiamo visto cosa è diven­tata, secondo Pigna­tone: un luogo di potere, cri­mi­na­lità e vio­lenza. Addi­rit­tura, rac­con­tano gli inqui­renti, Buzzi si sarebbe fatto aiu­tare da Car­mi­nati per un finan­zia­mento dalla giunta Ale­manno. Se così fosse, la direbbe lunga su quanto il potere poli­tico sia sog­gio­gato da que­ste cri­mi­na­lità. Poi c’è il ruolo dei fun­zio­nari ammi­ni­stra­tivi che dovreb­bero con­trol­lare e nor­mal­mente non lo fanno. Pen­siamo all’Ama: tutti sanno che non fun­ziona, ma è un sistema ben tol­le­rato. L’Ama viene pagata, secondo gli inqui­renti, con cifre incre­di­bili senza otte­nere tra l’altro risul­tati posi­tivi. Come nel caso della puli­zia dei campi rom.

Roma terra di con­so­li­da­mento dei legami tra mafie, cri­mi­na­lità e potere poli­tico. Da sem­pre?
La prima vera inda­gine sul sistema cri­mi­nale mafioso a Roma è del ’92, di Gerardo Chia­ro­monte, e parla di «pre­senza» delle mafie in tutto il Lazio. La poli­tica per 20 anni ha par­lato invece di «infil­tra­zioni». Ma aver con­fi­scato, come è stato fatto, 50 strut­ture alber­ghiere vuol dire che le mafie sono arri­vate tanto tempo fa, e i soldi rici­clati sono tanti. Tutto nel silen­zio totale e assor­dante. Pen­siamo al fatto che solo con l’arrivo di Pigna­tone, l’altro anno, c’è stato a Roma il primo caso di incri­mi­na­zione col 416 bis, il reato di mafia. Ci voleva un pro­cu­ra­tore che ha ope­rato a Palermo e a Reg­gio Cala­bria, come Pre­sti­pino e Cor­tese, e ha por­tato la sua espe­rienza, met­tendo su un sistema di intel­li­gence più all’avanguardia e allar­gando lo sguardo sul Lazio e sui legami tra il mondo impren­di­to­riale e cri­mi­nale. I risul­tati, già dopo un anno e mezzo, si vedono.

Cosa è cam­biato con la giunta Ale­manno?
Credo che l’era di Ale­manno abbia in qual­che modo rati­fi­cato il cri­mine. Con una poli­tica scel­le­rata e senza freni, e per­so­naggi discussi, ha aperto gli argini. Forse da un punto di vista eco­no­mico, in modo irre­ver­si­bile. Cer­ta­mente la sua giunta ha tagliato i rubi­netti ad alcuni e ha finan­ziato altri. Una cosa grave, che ho denun­ciato anche in un’audizione alla Camera, è che sono state create una serie di false onlus appo­si­ta­mente per gestire i beni con­fi­scati alle mafie, di cui durante la sua giunta non sape­vamo più nulla. Ma è chiaro che ci sono cose — pen­siamo alle metro­po­li­tane e alle opere pub­bli­che, a par­tire dai mon­diali di cal­cio del ’90 o i mon­diali di nuoto — che ven­gono da lon­tano.

Senza distin­zione tra destra e sini­stra?
Intanto si vede che ci sono poteri ille­gali che si muo­vono legal­mente. E che la poli­tica non ha gli anti­corpi neces­sari per con­tra­stare la cri­mi­na­lità. Le mafie non guar­dano il colore poli­tico. Anzi, come si è visto nell’esperienza della Cala­bria, non è la cri­mi­na­lità che si orga­nizza ma diventa potere poli­tico. Que­sto è l’aspetto più inquie­tante. Ma sicu­ra­mente la pro­cura di Pigna­tone ne è consapevole.

Il Manifesto 3 dicembre

Trackback dal tuo sito.

Premio Morrione

Premio Morrione Finanzia la realizzazione di progetti di video inchieste su temi di cronaca nazionale e internazionale. Si rivolge a giovani giornalisti, free lance, studenti e volontari dell’informazione.

leggi

LaViaLibera

logo Un nuovo progetto editoriale e un bimestrale di Libera e Gruppo Abele, LaViaLibera eredita l'esperienza del mensile Narcomafie, fondato nel 1993 dopo le stragi di Capaci e via D'Amelio.

Vai

Articolo 21

Articolo 21: giornalisti, giuristi, economisti che si propongono di promuovere il principio della libertà di manifestazione del pensiero (oggetto dell’Articolo 21 della Costituzione italiana da cui il nome).

Vai

I link