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Testimoni intimiditi e minacce ai magistrati: così da anni si svolgono i processi al Tribunale di Latina

di Graziella Di Mambro il . L'analisi

Eccola la Giustizia «delicata» e «sensibile» che tocca amministrare al Tribunale di Latina. Da qualche ora,  finalmente, si può leggere cosa è accaduto in uno dei processi più impegnativi di sempre tra quelli che si sono svolti in piazza Buozzi, la piazza nel mirino proprio in questi giorni per le minacce al magistrato Lucia Aielli. C’è tutto nelle motivazioni del demoniaco processo Caronte scritte dal giudice Cecilia Cavaceppi. Il dibattimento, come si sa, si è svolto interamente a porte chiuse per motivi di sicurezza.   E c’è stato un giorno in cui la difesa si è dimessa in blocco. E ci sono stati giorni in cui i teste d’accusa sono stati minacciati sulle scale del Tribunale sotto gli occhi attoniti di un agente di polizia giudiziaria che stava lì a pochi metri. E ci sono state udienze in cui i testimoni hanno ammesso: sì, avevano paura di ridire quello che avevano riferito alla polizia. E al Presidente del collegio giudicante uno di loro ha detto: «Lei è una madre di famiglia… sono preoccupato per me e per i miei nipoti… non devono essere toccati…  sono spaventato e in questo momento mi scoppia il cuore… non voglio più essere chiamato in aula… ho difficoltà a confermare quanto dichiarato».
Ecco cosa è un processo difficile a Latina: «… la parte offesa confermava in udienza la minaccia subita da Di Silvio detto Patatino per cui se lo avesse fatto arrestare i suoi parenti erano a conoscenza di dove abitasse». E ancora: nell’udienza del 22.4.2013 c’è stata la ritrattazione di tre testimoni. Scrive il giudice nelle motivazioni: «… è emerso che Luigi Ciarelli, fratello di Carmine e Ferdinando (Furt) Ciarelli, il giorno in cui sono stati escussi» quei testimoni « parlava continuamente con una persona successivamente riconosciuta dall’agente di polizia giudiziaria proprio» come uno dei testi ritrattanti; «i due erano in disparte sulla scala di sinistra rispetto all’ingresso dell’aula dibattimentale; chi parlava in modo vivace era il solo Ciarelli Luigi mentre il teste  non faceva altro che annuire e guardare a terra… tale avvicinamento sortiva l’effetto di intimorire non solo quel teste direttamente ma anche le altre due testimoni che stavano per essere escusse. C’è stato chi in aula ha detto di «non sapere più come uscire da questa situazione». Uno dei testimoni ha ritrattato tutto in aula «per la sola presenza al posto degli imputati» di Andrea Pradissitto, uno che durante una intercettazione si vanta, appunto, di aver talmente intimorito quello stesso teste da averlo costretto a fuggire all’estero. Da cui fece ritorno solo dopo l’arresto dello stesso Pradissitto e poi in aula ha detto che ciò che aveva dichiarato alla polizia non era mai accaduto. Ritiene il Tribunale di Latina nelle motivazioni della sentenza di condanna che si sta trattando delle attività criminali di una storica famiglia di Latina, quella dei Ciarelli, di origine rom e ormai stanziale in città e che «ha operato nel settore dell’usura e delle estorsioni per lungo tempo con una struttura familiare». In particolare Carmine e Ferdinando Ciarelli «erano coloro che elargivano i prestiti, dettando poi le condizioni per la restituzione dei finanziamenti concessi, ai figli, alle mogli e comunque agli appartenenti alla struttura familiare che avevano il compito di convincere i ritardatari al pagamento delle somme date in prestito». In fondo Carmine Ciarelli non fa segreto neppure lui stesso del mestiere di manager della sua personalissima private banking. E per la verità lo scrive in una lettera che il Tribunale annovera tra le prove a carico: «L’esercizio dell’attività di usura in maniera continuativa trova conferma anche nella lettera scritta di pugno dall’imputato Carmine Ciarelli ed acquisita all’udienza del 10.2.2014 ove lo stesso dichiara spontaneamente di esercitare da trent’anni la attività di usura e che la gente solo che sente il mio nome mi temono».
Carmine Ciarelli è un potente. Lo sa al punto che non perde quasi mai occasione per ribadirlo, che sia in una lettera aperta o dentro una intercettazione, come è stato quando con un suo familiare afferma: «…noi, noi abbiamo la forza!». Negli atti di Caronte sono confluiti moltissimi episodi della Latina criminale che più ha fatto paura negli ultimi anni, dai tentati omicidi «per il predominio del territorio», alle estorsioni, fino al ritrovamento del vero e proprio arsenale di armi e munizioni in un terreno di via Moncenisio. Tutto occultato dentro barattoli di vetro e poi sotterrato. Alcune di quelle armi conservavano però tracce di dna di chi le aveva usate per gli agguati. Questo è l’inventario: Beretta semiautomatica 765 completa di caricatore, Revolver 357 magnum Ruger e un pacco di 50 cartucce per il munizionamento, pistola Bernardelli 9×21 con 15 cartucce, ulteriori 27 cartucce per la Bernardelli. Ce n’era a sufficienza per fare una guerriglia tra fazioni arrabbiate.
* Graziella Di Mambro, giornalista.  E’  vicedirettrice de “Il Quotidiano di Latina”

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