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Laggiù, agli albori della ‘ndrangheta

di Matteo Dalena il . Calabria

Lo storico Enzo Ciconte: “Società feudale brodo di coltura delle prime attività criminali in Calabria”//-   Correva l’anno 1571. Le province di Calabria Citra e Ultra versavano in uno stato semi comatoso: turchi e pirati premevano sulle coste minacciando fuoco e razzia, i litorali si spopolavano, le campagne recavano i segni dell’incuria e dell’abbandono. Terra di lacrime, versate sul fondo di secoli bui, la Calabria cinquecentesca era – per dirla con Pasquino Crupi (Storia della letteratura calabrese, II, Periferia, 1993) – «senza pane e senza pace». Un sacerdote del vibonese, Gabriele Barrio nativo del piccolo borgo di Francica e appartenente all’ordine dei Minimi, sul finire del libro I del De Antiquitate et situ Calabriae si lancia in una delle prime denunce del degrado morale e materiale della propria terra, individuando i veri responsabili in:

[…] mostri, voglio dire di regoli e di tiranni quali la saccheggiano e la scorticano, e a guisa di lestrigoni campani si pascono giornalmente, per una sete inestinguibile e per una inesausta avarizia dei travagli dei mortali e si hanno usurpato le selve, le balze, le terre, i pascoli, i fiumi, la caccia, tutti insomma i diritti de’ popoli.

Usurpazioni, vessazioni e atteggiamenti prevaricatori erano i tratti distintivi di una nuova classe feudale imbarbarita e, di fatto, padrona incontrastata di un territorio e di una giustizia parziale, amministrata ad modum belli. Baroni e galantuomini non agivano mai da soli. Le strade erano infestate di violenti e disrobatores, inoltre l’odio delle popolazioni vessate imponeva ai signori di girare armati fino ai denti. Da ciò l’abitudine di dotarsi di una scorta personale, una guardia armata per la soluzione di ogni contenzioso: «Questo tipo di attività è importante per comprendere le prime formazioni ʼndranghetiste – spiega lo storico Enzo Ciconte – i baroni avevano l’usanza di accompagnarsi con birri o sgherri reclutati tra i peggiori avanzi della società».

Rei di delitti comuni, banniti, contumaci, forgiudicati: a costoro il signore chiedeva fedeltà, protezione in cambio della cancellazione dei reati, sostanzialmente della libertà. In ballo c’era l’amministrazione della giustizia in territori ostili in cui il governo spagnolo, spesso assente, arrivava per mezzo di questi “delegati” particolari: gentaglia difficile da controllare e che, presto o tardi, si renderà autonoma. Il passaggio tra protostoria e storia delle prime formazioni ʼndranghetiste avviene, secondo Ciconte, a cavallo tra Settecento e Ottocento: «L’eversione della feudalità per mano francese mette in moto un movimento di terre demaniali ed ecclesiastiche, con un enorme capitale circolante che viene nelle mani di questi nuovi proprietari, baroni privi di feudo oppure galantuomini».

Il De Antiquitate et situ Calabriae del coraggioso sacerdote Gabriele Barrio reca dunque in sé, seppur accennati, i primi elementi per capire ciò che avviene agli albori della malavita calabrese: «La società feudale è il brodo di coltura entro al quale sono nate poi le prime forme di borghesia, i cosiddetti “galantuomini” che divennero poi usurpatori delle terre demaniali – conclude Ciconte – si tratta della prima base di esempio di attività criminale o paracriminale».

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