“Ciuri di Campo”: conoscere e ricordare, contro mafie e corruzione
La necessità della conoscenza ed il dovere del ricordo. Sono questi i due imperativi che hanno accompagnato gli studenti dell’Università degli Studi di Milano e alcuni quadri di Libera durante la settimana trascorsa a Marina di Cinisi, nel bene confiscato a Vincenzo Piazza, costruttore, colletto bianco di Cosa Nostra. Guidati dal professore di sociologia della criminalità organizzata Nando Dalla Chiesa, gli studenti hanno toccato con mano il significato della ricerca sociale, della formazione e dell’importanza delle fonti, senza mai tralasciare il potere della memoria, spinta propulsiva necessaria per un efficace contrasto alla criminalità organizzata. Il tutto compiuto fuori da aule universitarie o asettici uffici. L’intera settimana è infatti inserita nel progetto di Università Itinerante, inaugurata l’anno scorso sull’isola dell’Asinara, e portatrice di un modello di studio sul campo oggi praticamente sconosciuto a livello accademico. Alternando momenti di studio del territorio ad altri di riflessione “statica” all’interno del bene confiscato, gli studenti hanno dunque sperimentato un metodo di apprendimento diverso e più coinvolgente, dove testimonianze preziose e dirette si sono alternate al racconto di esperti e giornalisti.
Sui passi di Peppino
Prima paradiso estivo della famiglia Piazza, oggi, dopo la maxiconfisca del 1994, il complesso residenziale “Ciuri di Campo” è gestito dalla cooperativa Libera-mente e ospita ogni estate i campi di volontariato organizzati da Libera. Essendo a pochi chilometri da Cinisi, centro nevralgico di Cosa Nostra negli anni ’60-‘70, il complesso non poteva che essere dedicato a Peppino Impastato, militante della sinistra extraparlamentare, giornalista e poeta ucciso barbaramente dalla mafia il 9 maggio 1978. Quando da un’anonima provinciale che costeggia l’autostrada ci si accinge a girare nella via che porta al campo, su un muretto dietro un cumulo di spazzatura, si nota subito una scritta in arancione: Peppino vive. E Peppino rivive veramente. Lo si nota dalla forza con cui il fratello Giovanni porta il testimone della sua lotta gestendo e facendo conoscere “Casa Memoria”, prima dimora della famiglia Impastato e attualmente museo e scrigno dei ricordi della vita di Peppino. Rivive anche nei luoghi, nell’aria e nelle distanze che caratterizzano Cinisi. Quando il rombo degli aerei sovrasta i bagnanti, viene in mente la lotta che fece Peppino contro la costruzione della terza pista dell’aeroporto di Punta Raisi, troppo insicuro vicino ad un costone così alto e sferzato da venti spesso troppo forti ma così utile a Don Tano Badalamenti per gestire direttamente i traffici di droga da Palermo a New York. Peppino rivive anche negli occhi di chi dal balcone di casa sua scorge a cento passi la casa del boss che sbeffeggiava e irrideva durante le sue trasmissioni a Radio Aut, emittente che fondò insieme ad alcuni amici nel 1977. Brillano gli occhi a Salvo Vitale, amico e compagno di Peppino, quando riporta le battute taglienti che da quella emittente risuonavano così forti e rivoluzionarie per una cittadina così intrisa di mafiosità. Di Peppino parla tutto, le persone ed i muri di questa terra, le vie ed il casolare che per l’ultima volta l’ha visto vivo.
Combattere vuol dire conoscere
Con il faro di Peppino ad illuminare quei luoghi, la settimana trascorsa nel complesso “Ciuri di Campo” vuole essere soprattutto un’occasione per alimentare lo studio e la conoscenza. Concentrandosi sul periodo 1978-1982 gli studenti hanno capito quanto quegli anni siano stati fondamentali per la storia d’Italia. L’intreccio delle storie di mafia e terrorismo, la crisi della vecchia nomenclatura di Cosa Nostra a favore dei corleonesi, le uccisioni eccellenti di Peppino, di Pio La Torre, del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. Comprendere e dare senso a quel periodo vuol dire conoscere il retroterra storico che gli ha dato forma. Sapere che Tano Badalamenti non poteva sopportare gli scherni di Radio Aut in quanto ulteriore segnale di debolezza della vecchia cupola aiuta a comprendere quanto fosse fondamentale eliminare fisicamente un personaggio scomodo come Peppino. L’inquadramento storico, seppur decisivo, deve anche essere accompagnato dalla narrativa e dalla tradizione orale. Le fondamenta della storia, per crescere, devono essere sostenute dalle testimonianze e dai racconti di chi quella storia l’ha fatta o l’ha subita. È in questo senso che visitare le stanze che più di trent’anni fa vedevano il Generale Dalla Chiesa raccogliere i luoghi, i nomi e le attività di Cosa Nostra a Palermo non può essere concepito come una gita scolastica qualunque, ma come strumento di conoscenza. È nella stessa direzione che gli studenti hanno toccato con mano la ricerca sul campo tramite intervista. Vedere l’onda d’urto che una trentina di ragazzi riversa sulla cittadina di Cinisi per intervistare chi i cento passi li fa tutti i giorni, magari senza nemmeno saperlo, è incredibile. E così ti accorgi che la gente ha voglia di parlare, che i giovani sembrano essere più consapevoli e che Peppino è vissuto come un orgoglio. Ma è sempre nello stesso modo che noti, amaramente, come la cultura mafiosa sia resistente quando i cittadini di Cinisi ancora stentano a partecipare alle manifestazioni per Peppino, figura forse ancora troppo ingombrante che sembra scoppiare tra le mura di un paesino costruito su un’unica strada principale. Cultura mafiosa che molti insegnanti cercano di contrastare dalle fondamenta, nelle scuole, come hanno raccontato agli studenti il professor Palumbo e le professoresse Iachipino e Blandano, portatori di un modello di antimafia che prima era sconosciuto. Come spiegano orgogliosamente i membri di Libera Palermo nella bottega di piazza Politeama, partire dal basso vuol dire partire anche dalle periferie, dalle zone dimenticate da Dio. Ed è così che prendono forma progetti come Amunì (“andiamo” in dialetto siciliano) dove partecipazione e responsabilità diventano accessibili anche a chi l’emarginazione sociale l’ha conosciuta per davvero. Scegliere di combattere la mafia vuol dire anche selezionare i luoghi da frequentare nella propria vita quotidiana, come ci insegnano la più nota associazione AddioPizzo e “Molti volti”, una cooperativa basata sull’idea del coworking multietnico. Sostenere il consumo critico e mettere in circolazione il principio che chi non paga il pizzo e dunque non ingrassa la criminalità organizzata debba essere premiato e non emarginato, sono solo uno dei fondamenti del movimento antiracket che vanno radicandosi. Ricercatori e studenti hanno potuto anche confrontarsi con chi, mettendo la faccia e le parole al servizio di tutti, racconta ogni giorno la mafia e i suoi affari, come Rino Giacalone e Salvo Palazzolo a livello giornalistico o Umberto Santino e Francesco Forgione in modo più scientifico e accademico. Forse veramente le cose stanno cambiando, si stanno evolvendo. Come dice Palazzolo, giornalista di Repubblica Palermo, le maglie gialle che hanno vestito gli studenti e dei ragazzi di Libera durante le commemorazioni del 3 settembre in ricordo del Generale Dalla Chiesa, hanno cambiato il senso di quella giornata. O forse non è cambiato nulla. Perché quando vedi un’orda di giornalisti dare spallate a chi quella tragedia l’ha vissuta in prima persona, per riuscire ad intervistare le massime autorità, l’amaro in bocca lo senti. Ma probabilmente è proprio questo il senso, dare spallate per conquistarci lo spazio. E, come emerso durante uno dei tanti momenti di riflessione della settimana, sottrarre l’umanità all’altro per riportarla verso di noi, verso le maglie gialle. Verso chi si sente, e sicuramente è, dalla parte giusta della storia.
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