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Mafie nel Lazio: anche i “sordi” sulla via di Damasco

di Alessandro Panigutti* il . L'analisi, Lazio

La conferma è arrivata, definitiva, dalla Corte di Cassazione: quello che ha contraddistinto per quasi un decennio la gestione dell’amministrazione comunale di Fondi era un sistema fortemente impregnato di mafia. La politica e la dirigenza amministrativa di quel Comune, tra il 2001 e il 2007, sono state succubi, o addirittura complici, di un gruppo criminale che faceva capo ai fratelli Tripodo e ai loro sodali, capaci di dirottare in favore dei loro interessi privati e personali alcune delle attività amministrative per ottenere appalti, servizi, favori, corsie preferenziali nei pagamenti delle fatture, informazioni preziose per evitare sequestri di immobili abusivi, copie di documenti riservati e non ancora approvati per orientarsi nella predisposizione di offerte per partecipare a gare per l’offerta di servizi pubblici.

Aveva visto giusto il Prefetto Bruno Frattasi, quando si era assunto la responsabilità di spedire al Comune di Fondi la Commissione di accesso per accertare la consistenza dei sospetti che i carabinieri dell’allora Comandante Leonardo Rotondi e del Capitano Luigi Spadari avevano già «consacrato» con indizi che erano qualcosa di più che semplici fonti di prova, peraltro corroborati dalle dichiarazioni autoaccusatorie dell’allora assessore ai Lavori Pubblici Riccardo Izzi. E aveva visto giusto anche la stessa Commissione di accesso, che con una informativa di oltre cinquecento pagine aveva tracciato un quadro impietoso dell’ambiente di palazzo San Francesco e posto solide basi per il lavoro che sarebbe stato poi perfezionato dalla Direzione Investigativa Antimafia, uno stralcio dopo l’altro, segnando il percorso di un’inchiesta la cui denominazione, Damasco, sarebbe divenuta il neologismo capace di riassumere qualsiasi commistione tra pubblici poteri e spezzoni di criminalità organizzata. Avevano visto giusto anche i giudici del Tribunale di Latina, Lucia Aielli, Mara Mattioli e Valentina Valentini, quando il 19 dicembre 2011 avevano pronunciato una coraggiosa sentenza che riconosceva, episodio su episodio, l’identità di un’associazione di stampo mafioso nei rapporti che avevano cementato la relazione tra politica, amministrazione e malavita fino a farne un unico efficientissimo centro di potere.

Chi non ha mai visto giusto, o meglio non ha mai voluto vedere, è stata la politica che già all’indomani del destabilizzante intervento del prefetto Frattasi si era prodotta in una difesa d’ufficio senza risparmio di energie e colpi bassi. Non possiamo dimenticare «il libro bianco» (mai visto) con il quale Armando Cusani minacciava di raccontare l’altra verità sul caso Fondi; né la controinformazione serrata che denunciava l’opera di «pezzi deviati dello Stato» riferendosi allo stesso prefetto e ai componenti della Commissione di accesso. Altrettanto indimenticabile l’impresa titanica del senatore Claudio Fazzone che era riuscito a stoppare, mettendo insieme tre quarti di Governo, le reiterate richieste di scioglimento anticipato del Consiglio comunale di Fondi per condizionamento mafioso avanzate dal ministro dell’Interno Roberto Maroni. E poi l’inammissibile tam tam con lo slogan «la mafia non esiste», accompagnato dalle esternazioni del solito Cusani secondo cui «l’unica associazione per delinquere di stampo mafioso presente sul territorio aveva la propria base nella redazione di un giornale». Oggi che il pluricondannato Cusani è sospeso per demerito dalla funzione di presidente dell’Amministrazione provinciale, e che il senatore Claudio Fazzone occupa un posto all’interno della Commissione parlamentare Antimafia, vale la pena domandarsi se i due sodali di un tempo, a lungo i più autorevoli esponenti della politica pontina, oltre che i più accaniti difensori della immacolata natura del sistema Fondi, avranno voglia e argomenti da spendere per continuare la loro crociata contro la legalità, ovvero contro tutti coloro che si sono battuti con coraggio e senso del dovere per alzare uno steccato difensivo contro gli attacchi dell’illegalità, il tratto distintivo del periodo forse più buio nella storia di questo territorio. E’ più facile ipotizzare che Cusani e Fazzone preferiscano tacere e incamminarsi anche loro sulla via di Damasco, anche se sul percorso del ritorno. Quello di andata l’hanno già fatto.

*Alessandro Panigutti, giornalista. E’ direttore del “Quotidiano di Latina”

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