NEWS

Rassegna stampa 25 agosto 2014

di redazione il . Rassegne

Il latitante senza volto – “È l’uomo più potente della Sicilia”, così Lirio Abbate su L’Espresso apre l’analisi sulla situazione odierna siciliana, ricostruendo la figura criptica di Matteo Messina Denaro e il ruolo di prim’ordine che questi avrebbe nella gestione degli affari di Cosa nostra. Latitante da più di ventun’anni, trapanese di nascita e corleonese d’adozione, Matteo Messina Denaro è oggi considerato la mente della cupola, con alle spalle massacri di bambini e donne e oggi il potere di creare lavoro in una regione depressa. È il latitante senza volto, l’uomo di cui si ricostruiscono identikit sulla base di ricordi vaghi, lontani. Trapani ne provincia danno di Matteo Messina Denaro l’immagine di un santo, giudice ed esecutore di un tribunale che a suo nome miete vittime in nome di una giustizia celre, contrapposta a quella lenta e macchinosa dello Stato. Fedeli e fedelissimi si raccolgono attorno alla figura misteriosa di un boss che raccoglie consensi e sostituisce gli amministratori locali. Da un verbale inedito del 1988 in cui si delineano le radice del potere del superboss latitante, Mattero Messina Denaro si dipinge come il prosecutore del lavoro del padre “dedito alla coltivazione dei campi”. Nessun conto in banca e una BMW acquistata con i ricavati delle sue umili mansioni. I sospetti della magistratura, peò, crescono e, tenuto sott’occhio dalla Squadra mobile di Trapani, guidata da Rino Germanà. Il giovane Matteo iniziava così la scalata nella cupola di Cosa Nostra. Amici e ex compagni di scuola che gli stanno intorno e messi a verbale in quel giorno di ventisei anni fa risulteranno poi tutti complici, arrestati e condannati per mafia. La stagione delle stragi lo vede protagonista e dal 1993 Matteo Messina Denaro è ricercato. Si dissolve nel nulla il boss e, sebbene più di una volta, gli inquirenti fossero vicinin alla cattura, c’è sempre stato qualcuno disposto al sacrificio per salvarlo. Le comunicazioni e i pizzini con i mafiosi si riducono allora all’osso e Matteo decide di puntare tutto sul trapanese, lasciando che del resto del territorio continuasse ad occuparsi Riina. Dopo ventun’anni di Matteo non c’è traccia e le ipotesi sulla locazione della sua tana sono disparate. Da diverse intercettazioni sembra che il super latitante sia lontano da Trapani, addirittura in terra africana: la Tunisia è facile da raggiungere, basta imbarcarsi su uno dei tanti pescherecci diretti verso le coste del continente nero. L’ipotesi sarebbe avallata anche dai lunghi tempi che intercorrono tra l’emissione e l’arrivo dei messaggi del boss a Trapani. Ulteriori analisi investigative sembrano battere una strada interna e localizzare la tana del lupo in un territorio difficilmente raggiungibile tra le province di Trapani, Palermo e Agrigento. I legami con Franca Alagna, madre di sua figlia, sembrano recisi da tempo e anche la giovane, oggi diciottenne, pare non aver alcun contatto col padre. L’unico contatto di cui si ha certezza è quello con la sorella Patrizia Messina Denaro, arrestata nel dicembre del 2013 perché tramite dei “pizzini” del fratello. La mafia, però, sembra stare al passo coi tempi e così la magistratura ha riscontrato, per una gestione urgente degli affari sul trapanese, l’utilizzo di Skype, proprio con la sorella Patrizia.

Sicilia, le donne di mafia e i nuovi poteri a Palermo – Qualcosa cambia a Palermo e a renderlo noto sono le microspie che la magistratura ha piazzato nei meandri della città e che registrano le voci delle donne dei boss: mogli, madri e figlie che protestano perché gli ultimi assegni della cassa d assistenza sono stati dimezzati dai nuovi capi di Cosa nostra palermitana. I blitz delle forze dell’ordine degli ultimi mesi hanno portato, infatti, all’arresto di quasi duecento persone dall’inizio dell’anno e questo ha gravato in modo pesante sulle casse di Cosa nostra, il numero degli assistiti è cresciuto e il sistema si è bloccato. Salvo Palazzolo, su La Repubblica, scrive delle conseguenze che l’incepparsi del sistema ha portato con sé, con l’evidenza di una crisi importante nella pancia di Cosa nostra: due esattori di Bagheria, già in preda a problemi economici, hanno deciso di collaborare con la giustizia, con l’assoluta approvazione delle mogli. Dalle intercettazioni si evince la palese difficoltò degli uomini di Cosa nostra nel riuscire a racimolare la somma di denaro indirizzata agli assegni di assistenza. Addirittura Giuseppe Di Giacomo – boss di Porta Nuova ucciso a marzo – aveva messo di tasca propria cinquemila euro per cercare di placare le rimostranze delle donne, senza riuscirci. Dal carcere il fratello Giovanni Di Giacomo invitava alla prudenza: “Mai mettersi contro le donne di mafia”.

Una sessantina gli operatori economici ascoltati da Carabinieri e Guardia di Finanza intercettati dalle forze dell’ordine perché vittime di usura. Di questi in trentaquattro, tra commercianti e imprenditori di Palermo, hanno confessato in lacrime di aver pagato il pizzo terrorizzati dai nuovi boss di Palermo che fino al 23 giugno – giorno del blitz che ha portato all’arresto di 95 esponenti di Cosa nostra tra San Lorenzo, Resuttana e l’Arenella. Le indagini sono ancora in corso e altri operatori economici saranno ascoltati dalla magistratura, che, però, si ritiene soddisfatta dei risultati ottenuti fino ad ora per il riconoscimento di diversi esattori del pizzo. Amara la constatazione di una parte di città ancora piegata dalla combinazione micidiale di mafia e crisi a pagare il pizzo, ma ancora più triste è la lettura di verbali che riportano le voci di commercianti che negano di aver mai ricevuto richieste di pizzo: “Una persona è venuta in negozio, voleva un sostegno per i carcerati, ma non l’ho visto in faccia, ero girato dall’altra parte ».

A Borgo Santa Maria di Gesù è chiaro oggi chi detiene lo scettro del potere e a delineare in modo asciutto e diretto la mappa dei mafiosi sono le lunghe coversazioni dei fratelli Di Giacomo, che, nel carcere di Parma in cui sono detenuti, hanno rivelato informazioni basilari per comprendere la fisionomia della mafia a Palermo. Dalle parole di Giovanni Di Giacomo sembra essere assodato che Palermo sia nelle mani di alcuni scarcerati. Salvatore Profeta sarebbe “il migliore di tutti”, secondo Giovanni, e a Borgo Santa Maria di Gesù tutto ruota attorno alla sua persona. Pur essendo al carcere duro, parlando col fratello, Giovanni di Giacomo si dimostra informatissimo sulla situazione attuale di Palermo e sull’influenza che ex carcerati, come “uno dei Pipitone”, avrebbero sul controllo della città. Sempre da Giovanni arriva notizia del nuovo business della mafia palermitana: l’occhio degli affari dei boss cadrebbe infatti sulla gestione dei compro oro, sempre più spesso in mano ai mafiosi.  Per delineare la mappatura del potere a Palermo sono risultate di estrem interesse alcune intercettazioni che vedrebbero nella figura di Mimmo Tantillo un punto di riferimento importante per Borgo Vecchio; sembra che sia proprio lui ad occuparsi della cassa delle estorsioni in città.

I “bambini soldato” della Camorra – A palazzo Fienga, a Torre Annunziata, sono gli uomini del clan Gionta a comandare. Insieme ai grandi, però, ci sono anche i bambini: pistole e atteggiamento da “scugnizzi” sembrerebbero, infatti, all’ordine del giorno in questa porzione di Italia. A raccontare le storie dei bambini che crescono tra spaccio e cultura del crimine sono i volontari dell’oratorio dei Salesiani, impegnati a “salvare” i più piccoli da un futuro segnato da violenza e illegalità. I bambini vengono arruolati dal clan, che assegna loro compiti precisi, compiti da grandi: diventano baby-pusher e vedette della droga. Crescono col trauma di vedersi portare via i genitori dai militari nel cuore della notte: come si racconta su Il Mattino, troppo spesso questi bambini subiscono scene del genere, che segnano indelebilmente la loro crescita. Sin da giovanissimi, attorno ai sette anni, iniziano ad essere portati sui luoghi degli agguati per prendere confidenza con un mondo che non è proprio quello dell’età dell’innocenza. Sangue e violenza diventano la normalità e la prima mansione che ricevono è quella di aggirarsi nel quartiere e avvisare chi di dovere in caso arrivino le guardie. A 14 anni si impara a sparare. È il momeno di decidere che strada prendere: nessuno obbliga i ragazzini a prendere quella del male, ma il profumo dei soldi facili vince la paura del sangue e il prblema di un’infanzia non vissuta passa in secondo piano.

La ‘ndrangheta in Germania – Secondo quanto riportato da Il Fatto Quotidiano, a Frauenfeld, in Germani, da vent’anni era attiva una cosca della ‘ndrangheta, collegata a quelle dei Fabrizia a Vibo Valentia e ai Mazzaferro di Marina di Gioiosa Ionica. 18 sono le persone sottoposto al decreto di fermo emesso dalla procura distrettuale antimafia ed eseguito dai carabineiri del comando provinciale di Reggio Calabria. Le indagini rivelano che quella di Frauenfeld sarebbe una cosca clone di quelle calabresi, simile a quelle del sud Italia anche nella divisioni di ruoli e nella gerarchia, oltre a modalità e formule nella gestione del potere sul territorio. Una suddivisione semplice ed efficace vedeva da una parte gli anziani, con precedente esperienza nelle cosche reggine, e dall’altra i giovani di più recente affiliazione. Antonio Nesci, presunto boss, nel corso di una riunione, incitava i più giovani a darsi da fare e ad impegnarsi nei vari settori d’affari, dall’usura allo spaccio di stupefacenti. Conferme della presenza di un nucleo di criminalità organizzata di stampo mafioso riconducibile alla ‘ndrangheta sarebbero giunte dalle intercettazioni, in cui emerge con chiarezza il legame tra la cosca tedesca e quelle di Reggio Calabria, oltre a diversi riferimenti a omicidi e azioni delittuose di diversa matrice.

Su Die Welt un articolo che parla di don Luigi Ciotti e di Libera, del Gruppo Abele e dei diritti e della dignità delle persone, di Papa Francesco e della responsabilità di ogni cristiano.

Trackback dal tuo sito.

Premio Morrione

Premio Morrione Finanzia la realizzazione di progetti di video inchieste su temi di cronaca nazionale e internazionale. Si rivolge a giovani giornalisti, free lance, studenti e volontari dell’informazione.

leggi

LaViaLibera

logo Un nuovo progetto editoriale e un bimestrale di Libera e Gruppo Abele, LaViaLibera eredita l'esperienza del mensile Narcomafie, fondato nel 1993 dopo le stragi di Capaci e via D'Amelio.

Vai

Articolo 21

Articolo 21: giornalisti, giuristi, economisti che si propongono di promuovere il principio della libertà di manifestazione del pensiero (oggetto dell’Articolo 21 della Costituzione italiana da cui il nome).

Vai

I link