Basta con gli assalti a Dalla Chiesa e chi denuncia ‘ndrangheta
Ma la ‘ndrangheta, per i rappresentanti della Calabria, non si può toccare? Diciamo meglio, e più giustamente: per certi rappresentanti della Calabria? Parrebbe di sì, a giudicare da una polemica grottesca quanto violenta, agitata da esponenti della Confindustria, del Consiglio regionale e della stampa calabrese nei miei confronti. La mia colpa: essere presidente del Comitato antimafia istituito dal sindaco di Milano Giuliano Pisapia che nei primi giorni di agosto ha licenziato una relazione (la quinta del suo mandato) per denunciare la partecipazione ai lavori dell’Expo – o funzionali all’Expo – di imprese calabresi riconducibili al classico milieu ‘ndranghetista. Un grido d’allarme per chiedere verifiche e controlli, anche perché, fra l’altro, una di queste imprese aveva ottenuto un affidamento di lavori senza presentare la prevista certificazione antimafia. Nessun nome e nessuna indicazione di luoghi, per non compromettere le indagini giudiziarie (ogni caso ha dato infatti origine a una specifica segnalazione alle autorità competenti). Ma una ovvia assunzione di responsabilità di ordine generale, fondata su atti ufficiali, nell’invitare la città di Milano a non bearsi dei celebri “protocolli” che vengono tranquillamente beffati e aggirati. Che cosa dovrebbe mai fare un Comitato antimafia investito di una funzione di analisi e prevenzione? Fare finta di non vedere? Sonnecchiare come piace ai clan? Noi facciamo bottino mentre la sbirraglia dorme, recita un canto della criminalità lucana…Per dire che il sonno altrui è il loro ambiente ideale. Il Comitato (che per loro sarebbe comunque “sbirraglia”) ha scelto di non dormire. Di non aspettare le sentenze che arrivano sempre dopo.
E tuttavia questo non ha fatto impazzire solo i clan interessati, come sarebbe comprensibile. Ha fatto impazzire i vertici di Confindustria Calabria, di Federturismo, presidenti di commissioni consiliari regionali, avvocati assai simili nell’eloquio ai celebri “paglietta” meridionali dipinti da Gramsci, giornalisti di riporto. Hanno inventato che io avrei identificato mafia e calabresi e da lì è stato tutto un rimbalzare di anatemi: “le gravissime farsi”, “le parole offensive”, “le frasi sconcertanti”, per le quali dovrei “chiedere scusa alla Calabria”. Nessuno però ripete le frasi incriminate, nessuno le riporta tra virgolette (scritte o registrate) semplicemente perché non ci sono. E’ questa isteria difensiva che preoccupa, che ricorda – ma proprio tanto – la Palermo di Ciancimino, o quella esortata da Andreotti ad andare avanti a testa alta dopo l’assassinio del prefetto dalla Chiesa. L’accusa violenta e insultante verso chi denuncia. Lo scatto immediato di un meccanismo unitario da Milano alla Calabria. E, come non bastasse, la vendetta trasversale: un foglio locale che mette in prima pagina il titolo “Quando la sorella di Dalla Chiesa prendeva i voti dei ‘mafiosi calabresi’” (mia sorella Simona è stata consigliera regionale in Calabria più di vent’anni fa).
Un segmento di classe dirigente, che mai si è scatenato con questo linguaggio contro la ‘ndrangheta, che va invece all’assalto di chi denuncia il pericolo ‘ndranghetista a Milano in veste istituzionale e con linguaggio assolutamente sobrio (ognuno può leggere la relazione sul sito del Comune di Milano). Impressionante. Eppure proprio la reazione spiega, in modo direi spietato, anche le attuali condizioni della Calabria; e la fatica che la Calabria onesta e antimafiosa è chiamata a fare per affermare il suo diritto a costruire il futuro di quella preziosa parte d’Italia. La calunnia, la diffamazione in risposta al grido d’allarme; il “dagli all’untore” (loro, i “garantisti”…) invece di una limpida dichiarazione di intenti a cooperare perché nelle opere pubbliche pagate dai cittadini l’imprenditorialità calabrese sia rappresentata solo da aziende al di sopra di ogni sospetto, chiedendo ovviamente alle altre associazioni territoriali italiane di fare altrettanto. Qualche nervo scoperto è evidentemente saltato, anche se è difficile capire quale. Ora però sappiamo con più precisione di prima che la questione calabrese non sta “solo” nelle decine e decine di clan vogliosi di conquistare l’Italia. Ma che questo aspetto già terribilmente inquietante si intreccia con specifiche nozioni delle pubbliche responsabilità e con un resistente sistema di atteggiamenti culturali diffuso nella classe dirigente locale. Meno male che in Calabria c’è molto altro. Aiutiamolo, aiutiamoci insieme.
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