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Calabria, strane lacrimazioni di statue religiose. L’antropologo Satriani: “Possibile che delinquenti usino valori iconici”

di Matteo Dalena il . Calabria, Interviste e persone

«A piangere non è il Santo, ma la sua statua». È l’istintivo commento di un umile parroco di periferia, a proposito dei recenti episodi di lacrimazione di statue registrati in Calabria, prima a Piane Crati paese di 1500 anime alle porte di Cosenza, poi nel quartiere popolare di via degli Stadi nella stessa città. L’impazzare del “miracolismo” è seguito da una profonda ondata razionalistica che ha solo riattivato riflessioni mai sopite, di natura antropologica, a proposito degli elementi del linguaggio corporeo – sangue, lacrime e anche sperma – che, secondo l’etnologo calabrese Luigi Lombardi Satriani (La stanza degli specchi, Meltemi 2005) «sono investiti da un’intensa carica di valorazione simbolica, per cui  possono veicolare significati e dispiegarsi come linguaggio». Ma per le lacrime sgorgate dalle cavità oculari delle statue di Madonne e Santi vale lo stesso tipo di discorso? A rispondere è Luigi Lombardi Satriani, un’autorità nel campo dell’etnologia e dell’antropologia internazionale, nativo di San Costantino di Briatico (Cz), già senatore della Repubblica.  “Sicuramente vale anche per le statue della Madonna e dei Santi – spiega lo studioso. Le lacrime hanno la funzione culturale di mostrare il valore salvifico della sofferenza. I Santi e tutta la sfera del sacro partecipano all’umano piangendo perché l’umano rifletta sui propri peccati. Le lacrime ne testimoniano il pentimento, testimoniano che solo la sofferenza, via alla conoscenza ma anche al riscatto dalla precarietà esistenziale e dalla datità umana, può salvare”.  Il Santo si fa oggetto, statua: l’uomo la carica di speranze, aspettative, a volte esaudite, altre disattese, lo veste e lo sveste, lo espone e ripone. Il Dio o il Santo diventa simulacro di se stesso, ovvero – seguendo Marc Augé (Il dio oggetto, Meltemi, 2002) –  «è una realtà che significa, anche se lo si fa significare secondo le necessità, cambiandone gli attributi, gli ornamenti o gli interdetti».

Professore, qualora venisse accertata la natura non sovrannaturale delle lacrime, le stesse potrebbero assumere medesimo o similare significato dell’“inchino di Oppido”? 

Intanto anche se le lacrime fossero frutto di una qualche manipolazione, potrebbero comunicare in buona fede il desiderio di mostrare che il divino partecipa alla nostra vita. Oppure, se la statua piange in una casa, il desiderio che su quella casa, magari la propria, si attiri l’attenzione. In questa terra non tutto dev’essere letto sempre in un’ottica criminalizzante. Non tutto è funzionale alla ʼndrangheta, può esserlo ma anche no: accertiamolo di volta in volta. Questi casi potrebbero celare, ad esempio, un forte desiderio di attenzione o di supremazia, non per forza mafiosa, ma familistica, esistenziale. Ci può essere anche un tentativo di ribaltamento di una condizione di marginalità che attraverso il pianto e altre manifestazioni di ordine sovrannaturale, tenta di acquistare peso e rispettabilità sociale.

Guardando un po’ alla “geografia delle lacrimazioni”, questi episodi avverrebbero prevalentemente in quartieri popolari e/o a forte controllo mafioso. È solo un caso? E, soprattutto, quale consenso sociale si potrebbe acquisire dalla lacrimazione di una statua?

Un antropologo non deve stare lì a chiarire se un comportamento attiene o meno alla criminalità. È sempre possibile che un delinquente usi i valori iconici e le ritualità tradizionali per legittimare e legittimarsi. Certi fatti sono però di ordine criminale solo se la comunità locale li considera tali. Noi antropologi dobbiamo guardare il punto di vista della comunità: una lingua si sviluppa secondo le modalità della comunità dei parlanti. E così è il linguaggio dei rituali: quello che un calabrese intende per “onore” è diverso da quello che intendono un toscano o un romano. Legittimare l’inchino, assolutamente no. Ma una cosa è il giudizio politico che si fa sull’opportunismo di questi meccanismi di vassallaggio, altra è spiegarli, analizzarli per comprenderli. A proposito dell’inchino di Oppido, come l’episodio di Ballarò, come quest’ultimi di Cosenza c’è stato molto rumore mediatico. I vescovi, ad esempio nel primo caso, si sono affrettati a vietare le processioni che rimangono manifestazioni di pietà popolare. Come si può impedire a un popolo il diritto di esprimere alla propria maniera la devozione? Certo è che meccanismi di potere si sono ridistribuiti nella nostra regione con il boss mafioso che ha sostituito nella gerarchia dei poteri quei posti che prima erano occupati dalle famiglie dominanti. Attraverso questi meccanismi passa e si ratifica il consenso popolare. Ma differenziamo gli ambiti: una cosa è il problema di ordine pubblico, una cosa è l’aspetto della pietà popolare.

Quel che rimane, in fondo, è un forte bisogno di “religioso”: è così che potrebbero essere letti tutti questi episodi?

C’è un bisogno enorme di religiosità, c’è bisogno di avvertire in qualche maniera che qualcosa o qualcuno riscatti la nostra esistenza dalla precarietà, dal pericolo incombente, dai pericoli quotidiani e che tutto sommato dia significato all’esistenza. C’è bisogno di senso. La religione contribuisce a conferire senso e quindi risponde all’esigenza profondamente radicata nell’animo umano, tanto più avvertita in una regione periferica quale la Calabria, erosa da numerosi mali vecchi e nuovi.

    


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