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Quando la mafia sembra mettere la “maschera buona” per nascondere il volto più cattivo

di Gianni Bianco il . L'analisi

Un trafiletto su un giornale locale poi il titolo di un grande quotidiano. E articolo dopo articolo, una convinzione nell’opinione pubblica sembra farsi strada. Che in tempo di crisi, le mafie abbiano aperto una sorta di “supermarket del racket”. Vista l’aria che tira e la povertà che aggredisce anche i ceti medi (commercianti compresi), le organizzazioni criminali avrebbero insomma avviato la stagione degli sconti, del pizzo a saldi, del racket tre per due. Ne ha parlato tra i primi Checco Zindato, boss dell’omonima cosca reggina, che dal carcere ha ordinato ai suoi uomini di passare alle cosiddette “estorsioni gentili”. “La gente ti deve volere bene, ma non perché si spaventano. Non si devono chiedere grosse cifre” consigliava lui, dando le consegne alla moglie, “i soldi glieli devi prendere a chi ce li ha, non a quelli che lavorano per campare”. C’è chi l’ha subito definita la “spending review del pizzo”, mentre altri giornali raccontavano la “manovra fiscale dei boss per sopravvivere alla crisi”, ovvero la  nuova strategia di Cosa Nostra messa a punto nella zona occidentale di Palermo, per venire incontro alle difficoltà di imprenditori e commercianti taglieggiati: pizzo più basso, ma tutti i mesi, come fosse una rata per pagarsi la tv al plasma o l’auto nuova. “Il più sono quattro taverne, quattro pub, ci vanno solo quattro gatti…ristoranti, alberghi chiudono, cambiano gestione, non c’è n’è più…non ci sono più i travagghi (lavori ndr) i cantieri. Tanto vale non pretendere, ci portano pure più rispetto”, argomentava il boss Giovanni Di Giacomo, che – intercettato in carcere – si lamentava anche delle sforbiciate del governatore siciliano Crocetta (“…minchia … un macello ha combinato… sta tagliando da tutte le parti … per ora gli dà il mangiare ai poverelli”).

Lette in sequenza, queste e altre notizie simili, potrebbero indurre a credere che davvero, in tempi di vacche magre, le organizzazioni criminali abbiano ridimensionato e reso meno violente le proprie richieste per “fidelizzare” la clientela dei tartassati finiti sul libro mastro.  Ovviamente non è così, e non solo perché Di Giacomo, è lo stesso che poco dopo si dilunga nello spiegare ad un picciotto, nei minimi dettagli e in ogni fase, come far sparire un uomo nella calce. Certo è vero che il pizzo – viste anche le denunce in aumento in alcune realtà e la scarsa liquidità dei taglieggiati ovunque – ha smesso d’essere la più redditizia delle attività criminali, al punto che diverse inchieste, raccontano il graduale ritorno di Cosa Nostra anche alla droga, con la quale si guadagna di più, e, soprattutto, si rischia di meno.   E di soldi (tanti sporchi e subito) i capoclan hanno maledettamente bisogno pure per pagare gli stipendi ai parenti degli affiliati finiti in carcere. Mensili sempre più magri – visto che anche a Brancaccio, nel potente clan dei Graviano, in pochi anni si sono praticamente dimezzati – ma fondamentali pure per un’altra ragione: garantire il sostentamento ai familiari degli uomini d’onore, spiegano gli inquirenti a Palermo, “è diventata una vera e propria ossessione per tutti i capi visto che è il solo modo di farsi rispettare e di mantenere coesa l’organizzazione”.

Per questo è ingannevole l’idea che il pizzo tiri di meno e che le mafie lo pretendano con meno arroganza, quasi tenendo conto dei venti di crisi.  Per capire l’aria che tira, basta infatti andare ad esempio a Bari e sentire quel che denuncia il capo della Squadra Mobile Rinella. “Da tempo in città non si registrano attentati a cantieri e negozi” ha detto alla Repubblica, “e allora i casi sono due: o viviamo nel paese delle meraviglie oppure tutti pagano”.

Solo nel paese delle meraviglie (e comunque mai nel Sud Italia) meno saracinesche che saltano in aria, vogliono dire assenza del racket. Nel paese reale, significano più spesso un’altra cosa: controllo militare del territorio. D’altronde lo stesso Raffaele Cantone (ora a capo dell’Authority Anticorruzione), ha ricordato in un recente articolo, che l’unità di misura per valutare la reale forza di un’organizzazione criminale è proprio la capacità di non ricorrere alle maniere forti per ottenere sottomissione. L’intimidazione di cui parla il codice penale alla voce “associazione di tipo mafioso”, per Cantone si riassume nella formula ripetuta dai Casalesi ai commercianti cui chiedono il pizzo: “mi mandano gli amici di Casale”. Frase che non contiene minacce formali e fa riferimento per di più ad un sentimento nobile (l’amicizia)  e ad un luogo di per sé neutro (Casale). Ma tanto basta per incutere timore e obbedienza. Anche per questo può essere fuorviante parlare di “estorsioni gentili”. E’ proprio quando la mafia sembra mettere la maschera buona, che nasconde il volto più cattivo.

*Gianni Bianco è giornalista Rai, Tg3

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