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Ripartiamo da noi, dalle nostre comunità

di Domenico Nasone il . L'analisi

Il sacrilego gesto del parroco di Tresilico di Oppido Mamertina e dei suoi seguaci di fare inchinare la statua della Madonna delle Grazie davanti alla casa del boss Mazzagatti, questa volta non è passato inosservato. E se la notizia è corsa attraverso tutte le vie di comunicazione, lo dobbiamo principalmente al profondo senso del dovere del comandante della locale stazione dei carabinieri, il maresciallo Andrea Marino che non ha esitato un solo istante a chiedere anche agli altri carabinieri presenti di lasciare la processione e quindi approfondire eventuali responsabilità, complicità ecollusioni. E le altre autorità presenti e la gente – attenzione non dico i cristiani – che accompagnava la processione, come hanno reagito quando i portatori della vara hanno fatto inchinare la statua mariana davanti alla Casa del boss? Qualcuno ha dichiarato di non essersi accorto di niente. La maggior parte ha condiviso senza nessun motivo di scandalo. Probabilmente la verità va cercata nella prassi diffusa in tanti paesi, in occasioni delle feste patronali, di far sostare le statue dei santi davanti alle case delle persone più importanti e non solo perché mafiose ma anche perché potenti. In fondo sono soprattutto loro, i mafiosi e i potenti dei paesi, che con ricche offerte consentono di fare i fuochi d’artificio, di pagare i cantanti, le luminarie e quanto altro possa servire a “disonorare la memoria dei santi”.

Si trasformano così feste religiose in momenti di alto consumismo e di alienazione. E loro, i boss e gli altri “baroni”, sono felici di ricevere gli inchini delle statue e di tutti coloro che le seguono quale segno di sudditanza e ossequioso rispetto. Dopo le feste, le processioni, i balli, i canti, la gente è di solito più asservita a logiche che non hanno niente a che fare con i santi e la loro memoria. I mafiosi invece guadagnano un altro pezzo di consenso importante per esercitare il loro dominio. Ci fa inquietare tanto questa ultima notizia che consegna al mondo una immagine assolutamente negativa dei calabresi: complici ossequiosi e silenti della ‘ndrangheta, favoreggiatori e facilitatori dello strapotere dei boss anche grazie alla diffusa subcultura della mafiosità e dell’omertà che niente vede, niente sente e tantomeno parla. Sembrerebbe che nemmeno le parole di papa Francesco, che riprendono e rinvigoriscono i chiari messaggi del magistero calabrese sul tema della criminalità organizzata, riescano ad orientare i cristiani verso scelte credibili che testimonino ed incarnino una fede adulta fondata sul messaggio cristiano che è essenzialmente amore, verità, giustizia e pace. Una fede che alimenta una vita cristiana sempre attenta ad ascoltare Dio ed è anche capace di essere fedele all’uomo, ai suoi drammi, alle sue povertà. Una fede capace di discernere ciò che è bene e ciò che è male. E la ‘ndrangheta è il male assoluto, la via che porta dritti all’inferno e, ovviamente, alla scomunica. Ma anche la corruzione, l’indifferenza, il silenzio, il non scegliere da che parte stare, l’egoismo, sono vie che portano dritte al non senso di una vita, fuori dalla comunione e dalla comunità, che già da ora comincia asperimentare i frutti del male; le violenze, le minacce, le estorsioni, gli assassini di uomini, donne e bambini, i traffici di stupefacenti, la tratta degli esseri umani e lo sfruttamento della prostituzione, senza dimenticare la distruzione dei nostri ambienti, sono le sole preoccupazioni che impensieriscono le cosche mafiose assetate di potere e di denaro, l’unico loro vero dio. Diceva bene don Italo Calabrò: “se c’è qualcuno che non è uomo è il mafioso, e se c’è qualcuno che non ha l’onore è il mafioso. I mafiosi non sono uomini e i mafiosi non hanno onore”. L’episodio assurdo di Tresilico, è assolutamente da condannare e bene farà il vescovo di Oppido, Francesco Milito, a proporre ai cristiani di quella comunità un cammino di autentica conversione che potrebbe iniziare con una comunitaria e pubblica richiesta di perdono. Altrettanto illuminanti oggi sono le parole didon Nunzio Galantino, quando, riprendendo l’appello di papa Francesco nella sua ultima visita a Cassano, afferma che “la scomunica aveva due destinatari: il primo è certamente chi delinque, chi vive nel male. Gli altri sono la chiesa e la società civile. Entrambe devono collaborare per sensibilizzare e formare la coscienza”. E proprio l’indicazione di don Nunzio ci fa ricordare azioni concrete di comunità calabresi che hanno saputo lavorare nell’ottica della formazione delle coscienze. Voglio segnalarne tre che sono emblematiche del ruolo di comunità adulte e mature nella fede. La prima risale al 2 agosto del 1984. Protagonista è la comunità di Lazzaro della diocesi di Reggio Calabria. Pochi giorno prima la ‘ndrangheta aveva rapito un bambino di appena 9 anni, Vincenzo Diano: tutta la comunità, guidata dal parroco don Mimmo Marino, decise di sospendere i festeggiamenti in onore alla Madonna delle Grazie e di celebrare in piazza l’Eucaristia. La seconda è accaduta il 7 febbraio 1986: a Brancaleone venne ucciso Salsone Filippo, maresciallo della polizia penitenziaria. Nello stesso agguato rimase ferito il piccolo figlio Paolo.

La comunità parrocchiale di Palizzi decise di interrompere i festeggiamenti organizzati per il  carnevale. La stessa comunità nel 1984, dopo che era stato bruciato lo scuolabus che consentiva a tanti bambini delle campagne di recarsi a scuola, promosse la nascita di un “comitato popolare di lotta alla mafia e alla violenza”. Senza cadere nella presunzione di chi sa sempre cosa gli altri debbano fare, soprattutto con il pensiero attento ai familiari della piccola Mariangela Ansalone uccisa con il nonno nel maggio del 1998 a Oppido,  ed alle tante vittime innocenti della ‘ndrangheta, crediamo che “la via comunitaria” sia da privilegiare nella formazione di coscienze capaci di affrancarsi dalla sudditanza mafiosa.   Rinnoviamo fiduciosi la nostra scelta di continuare ad agire con responsabilità nella nostra Calabria, nella condivisione di un irrinunciabile cammino formativo che deve vedere uomini e donne di buona volontà impegnate a costruire comunità libere ed in pace, cittadini  e cristiani capaci di fare le scelte giuste, di inchinarsi solo davanti al dolore dei poveri, di adorare l’unico vero Dio, Signore della vita, di lottare affinché i principi e i diritti sanciti dalla Costituzione siconcretizzino anche nella nostra terra.  Rinnoviamo, la nostra vicinanza alla chiesa calabrese, ai suoi pastori ed alle sue comunità, duramente provate da tradimenti che la feriscono ma certamente capace di continuare ad essere anche nei più piccoli borghi calabresi, luogo di educazione e di formazione, strumento di pace e di liberazione, testimonianza di quel “già e non ancora” che dobbiamo sperimentare qui ed ora. Senza dimenticare che questo cammino di liberazione, accanto al contributo necessario e responsabile di una chiesa povera ed autentica, sarà possibile se i calabresi cominceranno a sperimentare la vicinanza e la presenza di uno Stato che è capace di arrestare i mafiosi ed i corrotti e crea i presupposti per la piana dignità di ogni cittadino: lavoro, istruzione, casa, sanità, libertà.

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