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L’altra corruzione? Le imprese della mafia

di Antonio Maria Mira il . L'analisi

Mentre il governo chiede alle banche di finanziare le imprese per sostenere l’uscita dalla crisi, c’è già chi lo fa proprio grazie alla crisi, ma in modo illegale. Lo ha portato alla luce ieri l’operazione “’ndrangheta banking” della procura di Reggio Calabria su una vera e propria banca dei clan che finanziava imprese calabresi e lombarde. Un sistema di finanziamento malato per un mercato malato. Altre prove? Mentre chiudono tante fabbriche, al Nord come al Sud, crescono quelle in mano alle mafie. Lo dimostra anche l’ultimo sequestro di beni per 110 milioni, in gran parte imprese, eseguito ancora ieri dalla Dda di Napoli contro il clan dei “casalesi”. Aziende vere, drogate dai soldi della camorra. Altra conferma.

Mentre la corruzione coinvolge imprese, amministratori e politici nelle grandi opere, le mafie confermano una affinata capacità di infiltrarsi in questo tipo di affari come segnalano le 55 interdittive antimafia che hanno bloccato altrettante imprese legate alla ’ndrangheta che stavano per accaparrarsi i lavori di ricostruzione post terremoto in Emilia. C’è davvero di che preoccuparsi. Ma non basta bloccare le aziende in odore di mafia, se poi quelle sicuramente mafiose – e per questo confiscate – vengono lasciate morire. Circa il 90% di quelle strappate ai clan e passate allo Stato sono fallite, morte, messe all’asta. In vita ne restano poche decine su circa duemila, come denuncia la relazione sui beni confiscati approvata all’unanimitá dalla commissione parlamentare Antimafia. L’ultimo caso clamoroso è il fallimento della “6Gdo”, gruppo della grande distribuzione di Giuseppe Grigoli, prestanome del boss latitante Matteo Messina Denaro. Lo Stato non riesce a far vivere i supermercati e manda a casa i 500 dipendenti. Malissimo. Non ci possiamo poi lamentare se a Castelvetrano, il paese di “Matteo Diabolik”, si commenta «la mafia ci dava lavoro, lo Stato ce lo toglie…».

Ma c’è un ultimo “mentre” che ci permettiamo di aggiungere e che riguarda il mondo dell’informazione. Mentre i giornali e i tg si riempiono con le vicende, le rivelazioni, gli scoop sulla presunta trattativa Stato-mafia di venti anni fa, non si racconta la mafia di oggi. Meno storie ambigue di una mafia che fu e più cronaca di quella di oggi. Che è sempre meno visibile ma sempre più presente. Una mafia che non è più ’o sistema, ma è dentro il sistema economico. Ovunque, dai settori tradizionali come l’edilizia a quelli innovativi delle energie rinnovabili, dalla grande distribuzione ai rifiuti, dalla sanità al welfare, dall’agroalimentare al turismo e al gioco d’azzardo, come denunciamo da tempo. Meno droga e più affari, impresa, lavoro. Una mafia che non opera più a colpi di stragi e a raffiche di kalashnikov (anche se ne sarebbe sempre capace e ogni tanto lo ricorda) ma col denaro, quello sporco della corruzione e quello, apparentemente pulito, del sostegno alle imprese. La faccia finanziaria e manageriale delle mafie.

Faccia pulita, bene accetta. Ma è solo una maschera, come avverte il procuratore di Reggio Calabria, Federico Cafiero de Raho, a lungo alla guida della Dda di Napoli, gran conoscitore delle nuove dinamiche delle mafie imprenditrici. Parla delle “forche caudine del credito fornito dai clan. Una volta varcate segnano l’ingresso in un circuito che massacra e distrugge. Gli imprenditori devono capire che non solo perdono i propri soldi ma anche la propria incolumità e libertà”. La mafia è qui tra noi, gestisce imprese, le finanzia, fa la faccia amica, e c’è chi pensa di approfittarne. Non ci stancheremo mai di citare la frase di un imprenditore calabrese da anni sotto scorta: «Qui da noi ci sono imprenditori che pagano il pizzo e altri che lo incassano». Confindustria, dopo i casi Expo e Mose, ha annunciato la mano pesante sulle imprese che corrompono. Ancor più pesante dovrebbe essere verso chi fa affari con e grazie alle mafie. E la politica usi occhi aperti e limpidi. Gli strumenti per tenere lontane le mafie dall’economia ci sono. Quando arrivano i magistrati è sempre tardi.

 

Antonio Maria Mira è giornalista de “L’Avvenire”

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