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Lea Garofalo e la tragedia della ‘ndrangheta

di Santo Della Volpe il . L'analisi

La tragedia di Lea Garofalo, il suo sacrificio, il suo assassinio per mano del marito; il coraggio e la determinazione della figlia Denise nel voler combattere quella ‘ndrangheta che ha ucciso sua madre, stanno diventando anche la tragedia della ‘ndrangheta, la faccia e forse la crisi del suo sistema di vita e di potere, che passa, come spesso accade in forme di organizzazioni criminali, attraverso altro sangue e sofferenza.  Il suicidio di Giuseppe Venturino, padre di Carmine, il collaboratore di giustizia che ha fatto ritrovare i resti del cadavere di Lea Garofalo – segna un altro punto di non ritorno. Venturino aveva già ripudiato il figlio, quando questi aveva cominciato a collaborare con la magistratura rivelando il luogo dove avevano sotterrato Lea dopo il suo assassinio e le modalità atroci della sua morte. Ma pensava forse che questo sarebbe restato nell’ambito di un tribunale, di un’aula di giustizia. Quando ha visto le immagini e sentito la confessione del figlio riproposta in televisione, non ha pensato forse che quella era la strada per uscire da quel percorso di morte rappresentato dalla ‘ndrangheta e dalle sua famiglie, legate da sangue, affari e delitti. Si è tolto la vita perché tutti avevano visto e sentito suo figlio avvicinarsi alla giustizia, confessare quel tragico e disumano delitto. Prendendo per colpa e vergogna quello che invece doveva sperare fosse un momento di svolta anche per lui e per la sua famiglia per affrancarsi dalla mafia dei suoi luoghi e paesi. Percorso difficile e complicato, certo, ma affrontabile: Denise non ha forse preso una strada ugualmente difficile e pericolosa?

Ha ragione Denise dunque quando, attraverso il suo avvocato Enza Rando, esprime il suo dolore, «perché una persona che si toglie la vita è sempre il segno di una profonda sofferenza». Ma anche indignazione «perché un padre che si vergogna di un figlio “pentito” al punto da uccidersi è uno schiaffo alla legalità e allo Stato». E, ancora una volta, Denise sente la paura, «perché io vivo ancora nascosta, sotto protezione, e la ’ndrangheta continua a procurare morte e desolazione».  Ha ragione perché esprime la propria sofferenza e disagio, ma anche perché ben individua il punto cruciale di questa ennesima tragedia nella tragedia. Denise è una ragazza straordinaria, piena di coraggio e di voglia di andare avanti, questo terribile suicidio la fa purtroppo ripiombare verso un passato crudele e difficile da dimenticare. Dietro un suicidio si possono nascondere molte motivazioni ed è difficile trovare le parole giuste in una vicenda così drammaticamente intricata. Ma Denise, riporta Enza Rando,” si rende conto che Carmine ha fatto un salto importante contro la ’ndrangheta e pensa che forse suo padre invece di essere orgoglioso di quel salto lo ha patito nel profondo. E questo, al di là delle situazioni personali, è uno schiaffo allo Stato”.
Tragicamente vero: anche un gesto così terribile come il suicidio può essere un tentativo di colpire ancora una volta lo Stato e la Legalità. Questo ci fa capire quanto sia ancora dura e difficile la battaglia per togliere aria, soldi , affari e mentalità alla ‘ndrangheta che si alimenta di questa durezza e di questi codici. Ma anche quanto sia importante sostenere, per la legalità e la giustizia, la battaglia di Denise e di tutti quelli che si avvicinano ad un percorso di legalità, per uscire da quei codici e da quelle mentalità, con la forza collettiva dei valori democratici, della legge e dei principi fondamentali segnati dalla nostra Costituzione. Ma per farlo, al di là delle parole, ci vogliono azioni e decisioni: certo, anche dei singoli che a Milano come a Petilia Policastro, in Calabria, devono fare quel passo in avanti per affrancarsi dalle mafie di vario stile ma identico scopo. Ma anche da tutta la nostra società e dalla nostra politica, quella parte pulita maggioritaria che deve scrivere nuove regole contro la corruzione e le mafie, aiutare i giovani senza lavoro a trovare futuro nella legalità (e questo vale per tutto il Sud) , rompere antichi legami e consuetudini di piccole e grandi illegalità, ridare fiato alle competenze ed alle professionalità nel lavoro e nella vita.
Forse in una prospettiva di questo genere, i tanti giovani come Carmine, oggi infilati nel tunnel della ‘ndrangheta, potrebbero trovare la forza di uscirne e fare il passo giusto della collaborazione e della denuncia delle mafie. Ed i loro padri non potranno o dovranno trovare in una confessione, in televisione, motivo per fare tragici gesti che hanno il sapore di una ultima, inutile, drammatica provocazione allo Stato ed alla legalità. Ed anche alla coraggiosa Denise, alla sua giusta voglia e determinazione di vivere ed avere una vita normale.

 

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