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Criminalità, crisi economica e povertà

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Quante volte, negli ultimi anni, abbiamo sentito dire, anche da esponenti delle istituzioni, che l’aumento della delittuosità nel nostro paese è anche frutto della crisi economica e della cresciuta povertà? Per ultimo anche Marzio Barbagli, illustre studioso della criminalità in Italia, che, nell’intervista su La Repubblica del 4 giugno  commentando l’incremento di furti e rapine rilevato nel quinquennio 2009-2013, fa riferimento alla crisi economica che “… ha tagliato il reddito di parte della popolazione e ne ha accresciuto i bisogni..anche se i reati sono più cresciuti nel centro nord che al sud”. Particolare, questo, riconducibile, secondo Barbagli, alla “colpa” degli immigrati che vivono più frequentemente nell’Italia centro settentrionale. Non voglio fare polemiche, ma in quell’area del paese gli immigrati risultano ben inseriti nel contesto sociale e lavorativo e la “colpa” nella commissione di reati sembrerebbe riconducibile soprattutto a quegli stranieri (albanesi, georgiani) e a cittadini comunitari “pendolari” (romeni) che compiono vere incursioni predatorie, a cadenze periodiche, nel nostro paese, per poi tornarsene a casa, magari a bordo dei minibus che collegano celermente con i loro paesi. D’altronde con un sistema processual-penale come il nostro, con una giustizia lenta e con le recenti leggi “svuota carceri”, l’Italia appare in una situazione di sistematico perenne indulto e, sotto questo aspetto, rappresenta sicuramente un “polo di attrazione” per chi voglia fare qualche scorribanda e tornarsene con il bottino in casa propria.

A volte, poi, questa considerazione di rapportare l’aumento di reati predatori alla travolgente crisi, è sembrato un tentativo di voler semplificare una parte della realtà, quella criminale, che in effetti è molto complessa o, addirittura, di cercare di giustificare insuccessi, o comunque, risultati non raggiunti sul piano ( ma esiste?) della prevenzione generale dei delitti. Già molti anni fa, illustri sociologi criminali ( ancora oggi studiati), smentivano la diffusa convinzione sulla pericolosità e sul potenziale criminale delle classi povere. Scriveva, infatti, Quetelet che “..molti dei dipartimenti francesi..più poveri…sono anche quelli più sani moralmente…l’uomo non è portato al delitto a causa della sua povertà”. Era una embrionale anticipazione del pensiero di un altro autorevole sociologo, Sutherland, secondo cui “..il delitto non è causato dalla povertà”. Siamo nella prima metà del secolo scorso e la cultura criminologica, sia nordamericana che europea, convergeva verso un modello di ricerca multifattoriale, orientato, cioè, ad interpretare il comportamento criminale attraverso l’osservanza di molti fattori, di diversa natura, correlati e integrati. Il crimine, dunque, come prodotto della società, valutabile e misurabile con le statistiche, un fenomeno sociale statisticamente prevedibile come le nascite, le morti, i matrimoni, le malattie. E’ la società, e quella di oggi in modo straordinariamente più accentuato rispetto al passato, che porta con sé i germi di tutti i delitti che vengono commessi insieme agli elementi che faciliteranno il loro sviluppo.

E quando, in una comunità, grande o piccola che sia, collassano l’insieme delle regole sociali, le sole che, se interiorizzate dai singoli e dai gruppi, controllano e disciplinano bisogni e aspirazioni, si va verso una realtà che Durkeim indicava con il termine “anomia”, ossia un serio rischio per la democrazia di un paese. E’ quello che, a mio parere, corre l’Italia, dove la criminalità mafiosa e quella degli affari continuano a schiacciare, da troppo tempo, la vita civile di molti cittadini, scardinando migliaia di famiglie, seppellendo affetti e devastando progetti di vita di troppi giovani. Senza contare i pessimi esempi che arrivano dalle arroganze, dal malaffare e dalle ruberie di esponenti politici nazionali, regionali e comunali, di (ex) esponenti istituzionali, di alti funzionari civili e militari dello Stato. Altro che povertà e crisi economica! Da noi si vive una profonda, prolungata deriva morale che ci ha fatto sprofondare nei bassifondi delle graduatorie mondiali sulla corruzione. E non si vede, almeno per ora, una via d’uscita, in un paese gravemente malato e dannatamente infiltrato da ricchi malandrini che non finiscono mai di rubare il denaro di tutti. Tanto, è risaputo, si diventa ladri soltanto in Cassazione, una decina di anni dopo le ruberie, se, nel frattempo, non c’è stata qualche prescrizione.

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