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La legalità del “Noi”

di Gianni Bianco il . L'analisi

Sul ring delle idee quello doveva essere il colpo del ko definitivo. Con un’Antimafia sociale già barcollante, messa all’angolo dagli arresti shock di due  protagoniste calabresi della lotta alle cosche come Caterina Girasole e Rosy Canale (molto diverse fra loro), l’affondo prenatalizio di Galli Della Loggia sul “Corriere della Sera” sembrava davvero il knock out capace di mandare al tappeto un intero movimento. La cultura della legalità, attaccava l’editorialista di via Solferino, non è nient’altro che “un oceano di chiacchiere”, “costose carnevalate come la Nave della Legalità” e “scolaresche precettate d’imperio ad ascoltare gli sproloqui di sindaci ed assessori”. Tanto più male faceva quel cazzotto, perchè su quel fianco, l’ampio mondo che si batte contro le mafie, aveva forse abbassato troppo la guardia. Lo ammetteva del resto anche la rete di associazioni e personalità di spicco da anni impegnate nella lotta all’illegalità che, accettando le critiche come spinta al cambiamento, tornavano però a ribadire che per sconfiggere le organizzazioni criminali, l’educazione è stata, è, e sarà sempre, fondamentale. Una replica su quelle stesse colonne, chiusa citando la risposta data da Paolo Borsellino a chi gli chiedeva cosa potessimo fare noi per contrastare davvero Cosa Nostra. “Noi arresteremo i padri, voi educherete i figli” diceva il magistrato ucciso in via D’Amelio, ricordando che la prima linea della lotta alle mafie, non sempre e non solo vada cercata in un ufficio di procura, in un commissariato di polizia, in una caserma dei carabinieri. E che invece la trincea è spesso quel confine sottile che il professore varca quando è capace di trasmettere ai suoi ragazzi il sapere più prezioso: sapere che, come ricordava Falcone, la mafia c’è oggi, ma, da fenomeno umano, è destinata a non esserci domani soprattutto se il cambiamento parte da te, coinvolge altri e arriva al “noi”.

L’immagine di Galli Della Loggia – quelle truppe cammellate di studenti deportati a manifestazioni di cui poco o nulla loro importa – mi è tornata spesso in mente in questi ultimi mesi durante i quali ho avuto l’opportunità di andare nelle scuole per dibattere di pratiche condivise di contrasto alla mentalità mafiosa, promuovendo una “legalità del noi”, declinata al plurale e allergica alla delega. Pur cercandoli, di ragazzi così non ne ho trovati molti. Di sbadigli ne ho visti pochi e sentito invece tante domande provocatorie, riflessioni acute, storie di impegno concreto. Nella palestra del liceo Augusto di Roma ad esempio, qualche settimana fa erano trecento i ragazzi pigiati dentro la palestra. Dopo aver per mesi studiato e discusso in classe questi temi, erano tutti lì, presi da quel che Don Luigi Ciotti ha raccontato di sè e della sua scelta di fondare il Gruppo Abele e Libera, partendo dall’incontro con un senzatetto e la madre di una vittima di mafia. Seduti per terra, senza che una mosca volasse, per due ore di fila hanno preso coscienza di quanto la mafia possa temere chi ragiona con la propria testa, è mosso dal coraggio etimologicamente inteso come “aver cuore”, e che non si ferma perché non è solo. Tutti precettati? Non si direbbe e quello che giorni dopo Flaminia ha scritto di quella mattinata ne è la conferma più efficace. “Quello che mi porterò sempre dentro” annotava la studentessa di 4H ringraziando Don Ciotti “è una parola semplice, di sole tre lettere: NOI.

Adesso ho il cuore colmo di una nuova speranza per il mio domani ma, soprattutto, per il futuro di tutte le persone che mi circondano. Ho capito che si può cambiare solo se ciascuno di noi si impegna in prima persona. Penso che sia giunto il momento di non essere solo spettatori,  ma di iniziare a fare qualcosa di più, le sue parole e il suo esempio mi spingono a credere che sia possibile. Sono realmente convinta che la mia gioia non sia sufficiente per essere felice, almeno fino a quando chi mi sta attorno soffre.  Credo che l’unico modo per cambiare strada sia quello di prendere coscienza della situazione, di capire che la vera gioia è quella comune, così che ognuno di noi si impegni realmente e non solo a parole. Sono convinta che abbiamo tutti una speranza, magari un po’ nascosta, ma c’è”. Qualcuno dirà. Ma non sarà solo l’emozione di un attimo, la sensibilità particolarmente spiccata di una liceale abituata a confrontarsi con Cicerone ed Hegel? Può essere. Ma forse non è così. In un’altra occasione, questa volta al tecnico industriale Natta di Bergamo ho invece visto un sedicenne salutare con un gesto insolito Giuseppe Gatti, che per la Dda di Bari segue le inchieste sulla criminalità organizzata del Foggiano. Di fronte ad una platea (anche questa volta partecipe) il magistrato aveva parlato a lungo della forza e dell’urgenza del “noi”. Sta quasi per congedarsi, quando quel ragazzo, dopo un colloquio personale, con la sponteaneità e la genuinità della sua età, si batte più volte il pugno al petto, per poi rivolgere l’indice verso il pm antimafia. Proprio come i calciatori dopo un gol, salutando i propri tifosi nell’atto di dire: vi porto nel cuore. E davvero pensabile che non lascerà traccia alcuna nel futuro di questo ragazzo, l’aver condiviso e sostenuto l’impegno, le difficoltà e i successi, di un un servitore dello Stato impegnato contro la mafia? Come finirà questa storia, quali scelte farà questo ragazzo in futuro, lo sapremo solo fra un po’ di anni. Ma non è improbabile che prenda la piega di quell’altra storia che Caterina Chinnici racconta nel recente libro in cui parla di suo padre Rocco, consigliere istruttore di Palermo e che tra i primi aveva intuito quanto la pedagogia, più del codice penale, possa essere importante per combattere Cosa Nostra, tanto da passare tante delle sue giornate nelle scuole a contatto con i giovani. “Lei è la figlia di Rocco Chinnici?” si sentì domandare un giorno la figlia, anche lei magistrato. “Io” si presentò il suo interlocutore, “sono uno dei ragazzi che ascoltò suo padre a scuola poco prima che venisse ucciso. E tutto è rimasto impresso nella mia mente di quell’incontro”.
Sapete come si chiamava quell’ex studente? Ivan Lo Bello, il futuro presidente di Confindustria siciliana, pronto a mettere fuori dall’associazione chi continuava a pagare il pizzo. La conferma che finché c’è scuola c’è speranza.

 

*Gianni Bianco, giornalista Rai –  Tg3

 

 

 

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