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E’ ‘ndrangheta quella del basso Piemonte

di Davide Pecorelli il . Piemonte

Stessi fatti, diverse le interpretazioni, opposto il risultato finale. Come è noto, il processo d’appello scaturito dall’Operazione Albachiara – che aveva sgominato una cellula di ‘ndrangheta nel Basso Piemonte – ha ribaltato il pronunciamento del primo grado, condannando tutti gli imputati a pene comprese tra i tre anni e i 7 anni. L’organizzazione mafiosa di natura ‘ndranghetista capeggiata da Bruno Pronestì è, in attesa del pronunciamento della Cassazione, provata dal punto di vista giudiziario. Ma perché una così diversa sentenza con i medesimi fatti? Abbiamo cercato di capirlo leggendo le motivazioni della Seconda Sezione Penale della Corte di Appello di Torino.

Il fatto non sussiste? Il primo verdetto aveva suscitato un certo clamore, se non altro per le motivazioni addotte per assolvere tutti gli imputati “perché il fatto non sussiste”. Il fatto in questione era l’associazione mafiosa che, secondo Giudice Massimo Scarabello, non poteva essere provata, nonostante quello creato tra Cuneo, Alba e Alessandria fosse stato da lui definito “un locale perfetto”. Perfetto, ma non punibile con il 416/bis. In estrema sintesi, veniva motivato questo teorema per l’assenza dei reati scopo tipici delle associazioni mafiose. Quella sgominata dall’operazione Alba Chiara era, per il giudice di Primo Grado, un locale che di lì a poco sarebbe diventato operativo, ma che non aveva ancora messo in atto le caratteristiche tipiche contenute nell’articolo 416/bis del nostro Codice. Tradotto in modo più semplice: la ‘ndrangheta, che opera e si radica sul territorio senza troppi clamori, è tale se esercita in concreto la propria carica intimidatoria e l’assoggettamento sul territorio. Quindi, grazie a questo teorema, tutti gli appartenenti alla “locale perfetta” avevano ottenuto un’assoluzione.

Il ricorso in Appello E’ storia nota che la Procura di Torino, subito dopo il verdetto, aveva annunciato ricorso alla sentenza e le condanne di secondo grado hanno dato ragione alle posizioni della Procura Generale sostenute in dibattimento dal pm Antonio Malagnino. Nell’affrontare l’appello la Procura ha cercato di smontare punto per punto il dispositivo del Giudice Scarabello, facendo ricorso alla giurisprudenza a disposizione sulla mafia al nord, convinta che quella del Basso Piemonte fosse da considerare a tutti gli effetti un locale di ‘ndrangheta. Tra le motivazioni più interessanti spicca quella sull’effettiva carica intimidatoria. Partendo dal fatto che l’organizzazione da giudicare aveva messo in atto riti, concessioni di doti, sanzioni interne, possesso di armi e rapporti stretti con la cada madre in Calabria, il pg Malagnino ha affermato che “l’associazione è strutturata con regole tipiche della casa madre per integrare il disposto di cui all’art 416/bis, avendo in sé la capacità di intimidire e di piegare ai propri fini il tessuto territoriale circostante”. E ancora sulla struttura della ‘ndrangheta. Questa organizzazione criminale è strutturata in locali con un grado di autonomia, ma strettamente legati con le ‘ndrine di riferimento in Calabria. Quindi quella del Basso Piemonte è da considerarsi un tassello di un disegno criminale più ampio: le locali sono a disposizione dell’intera organizzazione per compiere atti illeciti.
Nella sentenza depositata il 17 febbraio vengono provati tutti i reati contestati e su un caso, quello di Caridi, ex consigliere comunale del Pdl la visione proposta nel secondo grado è completamente opposta a quella del primo. Giuseppe Caridi, detto ‘o scarparu, nonostante fosse un politico aveva ricevuto la dote di picciotto perché ritenuto del sodalizio criminale “un bravo cristiano”. Se nel primo verdetto la sua affiliazione veniva definita come un atto preparatorio del locale ad iniziare a operare, nell’appello viene completamente ribaltato il significato della concessione del “titolo” a Caridi da considerarsi la realizzazione di uno degli scopi dell’organizzazione: quella di infiltrarsi nelle istituzioni. Obiettivo tra i più pericolosi perché rappresenta il più smaccato atto di sfida alla democrazia. Questa sentenza è importante per due ragioni: perché testimonia l’esistenza della ‘ndrangheta nel Basso Piemonte e conferma la possibilità giuridica di colpire la mafia silente che è un pericolo per tutti, perché organica ad un disegno criminale più ampio, efferato e spietato.

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