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Informazione, ripartire dal Basso Lazio

di redazione il . Lazio

«Per anni avevamo raccontato questa terra con alcuni luoghi comuni, poi un giorno ci siamo accorti che qualcosa era cambiato e per noi scrivere, da quel momento, è stata una palestra di giornalismo». Lo spartiacque è  il “caso Fondi”, la richiesta di scioglimento per infiltrazioni mafiose del Comune a pochi chilometri da Latina. Da quel giorno, per i giornalisti del Basso Lazio ha inizio un’altra storia. A raccontarla è Graziella Di Mambro, vicedirettrice di Latina Oggi, all’appuntamento “Silenzi e veleni, vent’anni dopo Ilaria Alpi: l’informazione 2.0”, uno dei 25 seminari organizzati da Libera nella XIX Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo di tutte le vittime innocenti delle mafie che si è tenuta a Latina lo scorso 22 marzo. La vicedirettrice ricorda i “patti” fra clan, il condizionamento delle amministrazioni locali e del mercato ortofrutticolo della città, le pressioni della politica, i comitati d’affari che hanno provato a mettere a tacere l’informazione locale.  «Sono arrivate diffide a scrivere la parola mafia»  –  racconta  Graziella Di Mambro – anche ai principali giornali nazionali che della Fondi Connection si stavano occupando, sino ad arrivare ad Ostia e tutti gli affari delle mafie nel Lazio. «A Latina Oggi abbiamo collezionato 22 querele» – spiega  – tentativi di mettere il bavaglio all’informazione, di far tacere chi scriveva dei rapporti fra politica, mafie e economia nel sud Pontino. Una storia che non è ancora finita perché, nonostante condanne e arresti, il sistema di potere che copre numerosi reati e traffici illeciti nella provincia è ancora attivo. Mafie che uccidono e che fanno poi calare il silenzio intorno alle vittime. Un nome su tutti lo fa Santo Della Volpe,  presidente di Libera Informazione, ed è quello di Don Cesare Boschin, ucciso a Borgo Montello il 29 marzo del 1995; il parroco che secondo alcuni testimoni si era interessato alle vicende legate ai traffici di rifiuti in quell’area.

Il collaboratore di giustizia Schiavone: “Le armi  partivano dal porto di Gaeta”. Dal Lazio delle mafie, dei traffici di rifiuti e degli imprenditori complici sino al duplice delitto dei giornalisti Alpi – Hrovatin, il passo è breve. Lo racconta nella video-intervista trasmessa durante il seminario e realizzata da Andrea Palladino per Toxicleaks, il collaboratore di giustizia, Carmine Schiavone. «Ho saputo da un nostro uomo ma poi anche da altri che là, da Gaeta partivano armi e rifiuti … [..]  andavano in Somalia».  A Mogadiscio trovarono la morte i giornalisti Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, uccisi  il 20 marzo del 1994. Per bloccare l’accertamento della verità sul loro duplice delitto, in vent’anni di silenzi e depistaggi, si sono mossi in tanti. Ma il mondo dell’informazione non è rimasto a guardare. Alcuni giornalisti hanno continuato l’inchiesta di Ilaria, in parte contenuta in quel servizio che l’inviata del Tg3 avrebbe dovuto trasmettere il pomeriggio in cui venne uccisa. Tanti gli elementi raccolti in questi anni sui traffici di rifiuti e armi dall’Italia alla Somalia e altri Paesi. Nel suo intervento, Andrea Palladino, giornalista-documentarista e autore del libro “Trafficanti” ricostruisce la  fitta rete criminale che gode di appoggi importanti e che da anni gestisce in Italia, come nel resto del mondo, i traffici di rifiuti tossici. E’ fatto ormai accertato che la giornalista Ilaria Alpi, in particolare, avesse concentrato le ultime ricerche sulla compagnia di navigazione Shifco dell’imprenditore Mugne, sospettando che questa impresa usasse le navi da pesca per altri traffici. Dall’Italia sarebbero partite navi cariche di armi per le fazioni in guerra e in cambio in Somalia sarebbero stati smaltiti illegalmente rifiuti tossici. «Una relazione dell’Onu, del marzo 2003  – spiega Palladino –  indica la compagnia di navigazione Shifco legata al trafficante Monzer Al Kassar come impresa coinvolta nel traffico internazionale d’armi verso la Somalia e la ex Yugoslavia». Palladino racconta, inoltre, dell’ultimo viaggio di Ilaria Alpi a Nord della Somalia, a Bosaso, dove la giornalista cercò  conferme sull’interramento di rifiuti tossici sotto la strada Garowe-Bosaso e intervistò il sultano Bogor, cui fece domande proprio sulla Shifco e su  Mugne. Una rete, quella dei trafficanti di rifiuti, che operava in diversi porti, «Napoli, Salerno, Trapani, Gaeta» – luoghi citati anche  dal collaboratore Carmine Schiavone che  nella video-intervista, aggiunge «sapevamo che i traffici di armi e rifiuti li gestivano i Servizi».  A  Gaeta, dice Schiavone, in particolare, «c’erano somali»che erano collegati a questi traffici con le loro navi.

Fare inchiesta, miglior modo di rendere onore a Ilaria Alpi. «Ilaria – afferma  Luciano Scalettari, inviato di “Famiglia Cristiana” che si è occupato a lungo di questa inchiesta – aveva con molta probabilità individuato la punta dell’iceberg di questo sistema». Una inchiesta così pericolosa che in Italia i Servizi di sicurezza hanno apposto, negli anni, il segreto sugli atti che riguardano molte indagini connesse a questi traffici. Di recente, una richiesta di desecretazione presentata da Green Peace ha permesso di dare il via alla declassificazione di alcuni atti. E, dopo una inchiesta de “Il Manifesto” che denunciava l’esiguo numero di documenti avviati alla desecretazione, la presidente della Camera Boldrini e poi il Governo hanno dato l’ok per una operazione più ampia. «Ancora una volta grazie a due giornalisti che hanno fatto il loro dovere – spiega Scalettari – ovvero quello di  porre le domande, siamo riusciti ad avviare un percorso che consentirà di sapere di più su questi traffici.  Questo è stato il miglior modo, vent’anni dopo, di rendere onore alla memoria di Ilaria e Miran».  Inchieste, quelle seguite dai giornalisti Scalettari e Palladino, che costano isolamento, fatica, spesso intimidazioni e querele. «In Italia ancora in troppi – spiega Alberto Spampinato, direttore dell’Osservatorio Ossigeno – non possono fare una libera informazione, cosi come non l’hanno potuta fare i colleghi che sono stati uccisi perché cercavano la verità». Nel giorno della Memoria e dell’Impegno, Spampinato,  legge il lungo elenco dei giornalisti italiani, vittime della violenza mafiosa e del terrorismo.    «Dobbiamo andare sul territorio –  ha ricordato l’inviato di “Avvenire”, Toni Mira, e raccontare quello che vediamo, questo ha ancora un valore centrale nel giornalismo. Dobbiamo continuare a farlo». «Un giornalismo precario – conclude il segretario dell’Assostampa Romana, Paolo Butturini, non è un giornalismo libero. Serve ripensare l’accesso alla professione, tutelare i diritti di chi fa questo mestiere, guardando alle nuove tecnologie». Un impegno che riparte da Latina, dal Basso Lazio e guarda al resto del Paese, mettendo al centro il  “Manifesto” redatto dopo lo scorso 24 febbraio dai tanti giornalisti locali e freelance della provincia di Latina, per una informazione libera che riparta dal sud Pontino, terra che le mafie vorrebbero mettere a tacere.

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