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Alpi-Hrovatin, vent’anni di silenzi e depistaggi

di Luciano Scalettari il . L'analisi

Un ventennale amaro, quello che ricorre oggi: l’omicidio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Assassinati a Mogadiscio il 20 marzo 1994. Un colpo in testa a entrambi. Un’esecuzione. Per la madre di Ilaria, “Il più crudele dei giorni” (così il regista Ferdinando Vicentini Orgnani intitolò il film dedicato ai due giornalisti Rai) è «reso ancora più amaro perché dopo vent’anni non abbiamo né verità né giustizia». Questo il suo commento. Tanti anni che lei e il marito Giorgio (scomparso nel 2010) hanno vissuto protesi a un unico scopo: conoscerla, quella verità; ottenerla, quella giustizia. Invece, ciò che è accaduto è che lo Stato e le istituzioni in cui Luciana e Giorgio avevano fortemente creduto, li hanno sistematicamente traditi. Ieri, il 19 marzo, fortemente voluto dalla Presidente Laura Boldrini, ha avuto luogo alla Camera dei Deputati un evento di commemorazione. C’era Luciana Alpi, c’erano diversi giornalisti che si sono occupati del caso, c’era l’Associazione Ilaria Alpi, che ha accompagnato e sostenuto senza sosta i genitori di Ilaria nell’impegno a non dimenticare e a cercare la verità. È stata una “prima volta” l’evento della Camera. Importante. Forse un segno di svolta. Ma anche, inevitabilmente, una cerimonia che aveva il sapore della riparazione. Perché, se da un lato una delle massime istituzioni dello Stato ha voluto ricordare i due giornalisti, dall’altro quello stesso Stato ha contribuito in modo determinante a che la verità non emergesse. Questo, in fondo, è emerso dagli stessi interventi dell’incontro avvenuto alla Camera. Da poche ore, il Governo ha risposto “si” a questa richiesta.

Vogliamo ricordare solo qualcuno dei principali fatti che costellato il “caso Alpi-Hrovatin”? Fin dai primi minuti dell’omicidio le nostre istituzioni sono assenti. Nessuno (militari, polizia militare, pur presenti nella capitale somala) si reca sul luogo dell’omicidio. Il referto medico sui corpi effettuato a Mogadiscio scompare nel nulla. I bagagli vengono violati sul volo (militare) che li riporta in Italia. Scompaiono cassette, taccuini, macchina fotografica di Ilaria. Nessuno ritiene di dover effettuare l’autopsia sul corpo della giornalista al rientro a Roma. Cinque magistrati si susseguono alla guida dell’inchiesta senza portare ad alcun risultato apprezzabile. L’unico condannato, per concorso in omicidio, il somalo Hashi Omar Hassan, è ormai da tutti considerato un “capro espiatorio” (e si è già fatto una decina di anni di carcere), e il suo principale accusatore la polizia se lo “perde” prima ancora che inizi il processo e dal 1998 a oggi (15 anni) non è stata in grado di ritrovarlo. All’unico magistrato che ottiene risultati investigativi, Giuseppe Pititto, viene tolta l’inchiesta proprio mentre stanno arrivando dalla Somalia alcuni testimoni oculari lungamente e difficoltosamente rintracciati. La Digos di Udine, che quei testimoni aveva rintracciato, viene esautorata dalle indagini. I servizi segreti occultano metodicamente ciò che sanno e depistano con informazioni fasulle e devianti. E, se ancora non fosse abbastanza, sulla vicenda si allunga l’ “ombra di Gladio”, come documentò Il Fatto Quotidiano con l’inchiesta pubblicata il 25 marzo 2012. Questo hanno fatto in vent’anni le istituzioni del nostro Paese.

E non è tutto. Non va dimenticato il “gran finale”: la Commissione parlamentare d’inchiesta, presieduta da Carlo Taormina. Quella che doveva fare luce sulla morte dei giornalisti, e che invece concluse il suo lavoro votando a maggioranza una relazione nella quale si sosteneva, in sostanza, che non c’era alcun mistero, che i due giornalisti non avevano scoperto alcun traffico, che erano semplicemente finiti “nel luogo sbagliato al momento sbagliato”, che il viaggio in Somalia per Ilaria e Miran «era stato poco più che una vacanza» (parole di Taormina), che il depistaggio era stato operato da giornalisti, poliziotti e magistrati montando un caso inesistente. Ecco, prima dell’evento di ieri alla Camera, l’ultimo atto col quale il nostro Stato si era occupato del caso Alpi-Hrovatin era stata quell’indegna relazione conclusiva (le due relazioni di minoranza dicevano cose ben diverse ma erano, appunto, di minoranza). Laura Boldrini ha esordito annunciando la volontà di desecretare la montagna di atti che ancora non conosciamo, inerenti l’uccisione di Ilaria e Miran, ma anche i traffici di armi e di rifiuti tossici, su cui i giornalisti stavano indagando. Oggi la sottosegretario ai rapporti col Parlamento, Teresa Amici, ha annunciato che anche il governo farà la sua parte: toglierà il segreto anche dai documenti dei servizi segreti. Si potrebbe considerare, la desecretazione, un secondo atto riparatore. Verso Luciana Alpi, senz’altro, ma anche verso i tanti cittadini italiani che su questo mistero – come su molti altri – vorrebbero finalmente un po’ di verità. Tuttavia, dopo vent’anni passati invano, non è facile lasciarsi andare all’entusiasmo. Attendiamo i fatti.

In particolare sull’operato della Commissione Alpi-Hrovatin occorre davvero spalancare le finestre. Forse allora avremo finalmente la risposta ad alcune domande pesanti come macigni. Ne formuliamo solo tre, delle tante: la prima, come e da chi fu procurata la presunta macchina su cui viaggiavano Ilaria e Miran al momento dell’omicidio? Quell’automobile risultò poi una “patacca”, non era l’auto dei giornalisti Rai. Eppure il presidente Taormina ci costruì l’impianto della sua ricostruzione e vietò alla Procura di Roma di partecipare alle perizie sulla vettura. Secondo, chi procurò i cosiddetti “testimoni oculari” che fecero da puntello alla teoria dell’“omicidio per caso” votato dalla maggioranza? Si potrebbe forse scoprire che chi “aiutò” Taormina a trovare i testi aveva parecchi interessi personali a farlo. Terza e ultima, chi decise di “bruciare” alcune fonti riservate vanificando possibili e cruciali piste investigative e, viceversa, mise alla gogna giornalisti e magistrati delegittimandone il lavoro d’indagine? E, soprattutto, con quale obiettivo lo fece? Queste e tante altre risposte stanno in quelle migliaia di pagine, da anni sotto segreto.

 

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Luciano Scalettari

Giornalista dal 1987, lavora a "Famiglia Cristiana" come inviato speciale. Si occupa principalmente del Continente africano e, in Italia, soprattutto di attualità sociale e di giornalismo investigativo. Tra i libri che ha pubblicato I bambini nella guerra (1996, Emi Editore) con Angelo Ferrari; Ilaria Alpi, un omicidio al crocevia dei traffici (2002, Baldini&Catoldi) con Barbara Carazzolo e Alberto Chiara; La lista del console – Ruanda, 100 giorni un milione di morti (2004, Ed. Paoline-Focsiv);1994 (2010, Chiarelettere) con Luigi Grimaldi. Dal 24 marzo 2004 all’8 febbraio 2005 è stato consulente della Commissione Parlamentare sull’omicidio “Alpi-Hrovatin”. Dal 2004 al 2008 ha diretto, insieme a Francesca Fabris, la collana Nord-Sud – Pagine per capire, edita da Paoline-Focsiv. Infine, dal 2007, ha ideato e continua a coordinare con Alberto Laggia, il Laboratorio di giornalismo sociale La voce di chi non ha voce, organizzato dal Centro Culturale Kolbe di Mestre.

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