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Caso Alpi-Hrovatin, vent’anni di battaglie per la verità

di Maurizio Torrealta il . L'analisi

Ho conosciuto Ilaria Alpi e so che, se fosse possibile per lei essere presente oggi a ricordare la sua morte, non ne vorrebbe parlare affatto, ma preferirebbe affrontare a muso duro, senza esitazione, un altro argomento: la detenzione che dura ormai da quasi sedici anni di quel somalo che è stato condannato per aver fatto parte del gruppo dei suoi assassini ma è innocente: Hashi Omar Hassan. Che Hashi fosse innocente lo ha affermato l’unico testimone a suo carico, Ahmed Ali Rage Gelle, proprio l’uomo che lo fece condannare raccontando che lo aveva riconosciuto tra gli assassini di Ilaria e Miran e che ha ammesso in una telefonata trasmessa dal Tg3, ormai qualche hanno fà, di aver mentito in cambio dei soldi che gli furono offerti proprio da una autorità italiana. E proprio per ricordare Ilaria per la sua sincerità e il suo impegno civile mi sento di iniziare il suo ricordo proprio chiedendo a gran voce che vengo liberato Omar Hashi Hassan, che venga fatta la revisione del processo contro di lui . Ilaria non avrebbe mai tollerato che un innocente fosse ingiustamente arrestato e condannato proprio per la sua morte. Tanto meno dopo vent’anni di battaglie per la verità. Una beffa peggiore non potrebbe esserle fatta.

Ora possiamo parlare di questa inchiesta molto particolare sulla morte di Ilaria e Miran che dura ormai da 20 anni ed ha formato tre generazioni di giornalisti: ragazzi che hanno lavorato come se fosse stato il giorno dopo il suo assassinio, ogni giorno per 20 anni. Sono diventati vecchi in questi anni, siamo diventati vecchi facendo questa inchiesta. Se erano stati uccisi due giornalisti perché non si conoscesse l’ attività di queste navi, queste navi hanno continuato a navigare e quindi ad essere rintracciabili, nel tempo e nello spazio. Le navi hanno probabilmente cambiato nome e rotte ma i loro traffici potrebbero essere proseguiti. E gli ultimi lavori degli studenti della scuola di giornalismo Lelio Basso sul caso Alpi sembrano arrivare a queste conclusioni.

All’ inizio è stato difficile mettere insieme i pezzi ma dopo tutti questi anni i tasselli siamo riusciti a collocarli nei posti giusti e il quadro complessivo che ne è venuto fuori è stato desolante. Ilaria e Miran si sono occupati di una nave italiana la Farah Omar, costruita dal dipartimento della cooperazione del ministero degli Esteri. La nave era stata sequestrata dai miliziani somali. Da Mogadiscio erano pronte a salpare due cacciatorpediniere della marina e due elicotteri militari per andare a liberarla. Ma perché erano pronti ad intervenire i militari italiani per liberarla, quando la competenza del contingente italiano a Mogadiscio era di soli 250 km quadrati ? Probabilmente perché il carico di quella nave non doveva essere conosciuto. Il blitz per liberare la nave venne poi sospeso probabilmente per un accordo con i sequestratori ai quali fu lasciato lo scafo per trattare per il riscatto mentre il materiale nella stiva fu trasferito trasferito ad un’altra nave: la Gedi Rage che si affiancò alla Farax Omaar, come racconta lo stesso sequestratore della nave «venne sequestrata per un breve tempo e poi fu rilasciata». L’ attività del traffico di armi che diversi intervistati hanno raccontato che le navi svolgessero, era una attività che doveva rimanere segreta, per un motivo evidente: quelle navi erano state costruite per favorire lo sviluppo dei paesi africani ed erano state donate dal dipartimento della cooperazione del ministero degli Esteri alla Somalia per favorire la nascita dell’ industria della pesca ed invece commerciavano armi e favorivano la guerra civile nel Paese.

Secondo un rapporto delle Nazioni unite del 2002 esistevano flussi di commercio di armi provenienti dai paesi della ex unione sovietica, armi a pochi soldi che raggiungevano poi gli stati dell’Africa dell’est. Abbiamo raccolto da diverse fonti una spiegazione che raccontiamo con il beneficio del dubbio ma che sembra mettere al loro posto diversi tasselli di questo caso: l’ attività di quelle navi riguarda un traffico di armi estero su estero. Con la caduta dell’Unione Sovietica, sarebbe stato organizzato durante il governo di Craxi un traffico per acquistare a poco prezzo l’ immenso arsenale sovietico in liquidazione e rivenderlo negli stati dell’africa orientale ed occidentale.

Invece dei soldi gli organizzatori di questo traffico avrebbero ottenuto diritti di stoccaggio di rifiuti tossici in aree deserte.  L’operazione era senza rischio penale, non c’ era competenza della magistratura italiana, in Somalia lo stato era sfasciato da una sanguinaria guerra civile che richiedeva armi in continuazione, l’acquisto avveniva in uno stato estero e la vendita di queste armi avveniva in uno altro stato estero, il guadagno era di proporzioni enormi, sia sulle armi che sui rifiuti, per ognuno di questi scambi i profitti erano altissimi. L’unico guaio l’ha creato quella giornalista che parlava l’ arabo e che viaggiava dove non doveva ed aveva capito al volo quello che il dipartimento della cooperazione stava facendo. Erano i due anni successivi alla nascita di “Mani pulite”. Allora sarebbe stato un disastro parlarne ma ora dopo vent’anni e la fine dei partiti di allora e non ci sono più motivi per tacere. Cominciamo a raccontare la storia dall’inizio proprio dalla società che pagava il capo della Shifco, Said Mugne, a quei tempi ancora a busta paga della cooperativa di movimentazione terra della società Edilter di Bologna. Se illuminiamo anche questo lato della storia forse si potrà capire meglio quello che stava avvenendo in Italia. E forse tanti altri pezzi di questo mosaico costruito in 20 anni cominceranno a prendere il loro posto. E se questo scenario vi sembrerà miserevole, conoscerete anche voi quello che abbiamo provato noi a scoprire.

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