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Le aziende dei boss e la sfida dell’antimafia sociale

di Genovese - Giannone il . Lazio

L’ultimo sequestro è di ieri: beni per 420 milioni di euro sottratti dalla Guardia di Finanza alle cosche di ‘ndrangheta nel Lazio e in Calabria. Il provvedimento ha riguardato anche esercizi commerciali nel cuore della Capitale come il Caffè Fiume, famoso bar nei pressi di via Veneto. L’antimafia ha inoltre sequestrato autovetture di lusso e una concessionaria di auto a Vibo Valentia, oltre a terreni per un valore complessivo di oltre 7 milioni di euro. Le indagini si sono concentrate sulla cosca Fiarè-Razionale, alleata a quella dei Mancuso di Limbadi, nel territorio di Vibo Valentia. E’ solo l’ultimo segnale in ordine di tempo di un dato ormai confermato nelle principali relazioni dell’Antimafia e ribadito dal procuratore di Roma, Giuseppe Pignatone, nell’intervista rilasciata alcune settimane fa a Libera Informazione. Oggi una riunione alla Casa internazionale delle Donne alle 17.00 per fare il punto insieme alle tante associazioni impegnate sul territorio sullo stato del contrasto alle mafie nella Capitale, a pochi giorni dalla Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo di tutte le vittime delle mafie che si terrà a Latina il prossimo 22 marzo.

Beni confiscati, la sfida delle aziende. Le mafie hanno portato i loro affari ben dentro le mura della Capitale. I dati delle aziende confiscate in Lazio ci parlano di attività commerciali, costruzioni, e ancora alberghi e ristoranti. Decine di sequestri ed arresti a certificare l’ingresso prepotente delle mafie nel centro di Roma. Camorra e ‘Ndrangheta, con la loro economia drogata ed i fiumi di denaro sporco, a riciclare i proventi di traffici illeciti, soprusi, estorsioni, corruzioni. Il riciclaggio arriva quindi in centro, e disegna una nuova geografia enogastronomica. Sono pizzerie, gelaterie, ristoranti, a due passi dalla grande bellezza delle piazze più affascinanti del pianeta. Le mafie a Roma, su una terrazza vista Colosseo. E chissà se Jep Gambardella, nelle sue passeggiate romane, prima di salutare un vecchio amico dei night decadenti di Via Veneto, si sarebbe stupito trovando il Cafè De Paris – proprio quello, il simbolo della Dolce Vita – come lo troviamo oggi. L’azienda sequestrata, il licenziamento dei dipendenti, lo sfratto ed il locale chiuso.

Il Cafè de Paris: un impegno collettivo.  Il caso è di quelli esemplari, illuminanti, drammatici e inaccettabili. Prima nelle mani della ‘ndrangheta, clan Alvaro, poi sequestrato e poi confiscato in primo grado, il Cafè de Paris, con i suoi storici dipendenti e tutto il valore di un marchio, è ormai parte della storia antimafia della città.  L’azienda dopo i provvedimenti giudiziari è in difficoltà, la proprietà delle mura dell’immobile – cui il Cafè paga un oneroso canone per l’occupazione dei locali – cambia, ed i debiti nei confronti della stessa lievitano giorno dopo giorno. La nuova proprietà vuole liberare i locali, per nuovi progetti da realizzare nell’intero immobile: forse un albergo, a cinque, a sette stelle, è la voce di chi intorno al Cafè de Paris ha passato gli ultimi anni. Ma lo storico locale di via Veneto  vive nelle verande sui larghi marciapiede della nota via de “La Dolce Vita”, e l’amministrazione giudiziaria affitta così la gestione di un ramo d’azienda ad un’altra società che, proprio su via Veneto, lavora in un altro locale. E’ l’inizio della fine. La società mette in mobilità i dipendenti, fino ai regali di Natale, con tutti i  licenziamenti che arrivano puntuali il 22 dicembre. I locali ancora aperti, con manodopera fornita da nuove cooperative. La situazione precipita, inizia il presidio dei dipendenti e della Filcams Cgil, in strada insieme a Libera, ad accompagnarli in questa storia di omissioni, mancate convocazioni, e ancora la denuncia di pesanti irregolarità nella nuova gestione, deleterie per l’immagine di un locale storico di Roma: prodotti scaduti, irregolarità nel vendere acqua minerale, vini, alcolici. Sarà il tribunale di Reggio Calabria, competente in questa confisca, a decidere se esistano i margini per una retrocessione del contratto di affitto del ramo d’azienda, come chiesto unitariamente da Filcams e Libera, per veder poi reintegrati i lavoratori licenziati. A complicare il quadro, rimandato un primo sfratto previsto già per il 31 gennaio, il 18 febbraio viene chiusa l’attività ed eseguito il provvedimento. Una storia che continua nell’aula Giulio Cesare dove in un appuntamento nazionale alla presenza di ministri, magistrati e quasi 400  associazioni che si occupano di riutilizzo sociale dei beni confiscati, la storia Cafè de Paris diventa responsabilità condivisa da tutti. U n passaggio di testimone per non lasciare soli i lavoratori e non far fallire una azienda, proprietaria di un marchio storico che parla al mondo e restituita alla collettività.

I numeri e le proposte. In Italia, il 13% dei beni confiscati sono aziende. Di 1708, 1211 sono ancora sotto la gestione dell’Agenzia Nazionale (il 70% del totale) e 497 sono uscite dalla gestione e quindi destinate alla vendita, alla liquidazione o alla procedura di fallimento.  La prima regione per presenza di aziende confiscate è la Sicilia, con 623 beni; seguono la Campania con 347 aziende, la Lombardia si conferma al terzo posto con 223 aziende confiscate e al quarto posto c’è la Calabria con 161 beni.  Il Lazio si attesta al quinto posto con 140 aziende e chiude la Puglia con 131. Il Lazio, terra da sempre crocevia dei traffici illeciti e degli affari mafiosi conta, nella sola città di Roma, ben 110 aziende confiscate, di cui 57 in gestione. All’appuntamento nazionale che si è tenuto lo scorso 1 marzo a Roma non solo la denuncia delle tante criticità che riguardano la gestione dei beni confiscati in Italia ma anche le proposte. Libera ha presentato dieci proposte -obiettivi cui ha affiancato due  percorsi – campagne, da condividere sui territori con le tante realtà impegnate in prima linea in questi progetti: Libera il Welfare, i beni confiscati per l’inclusione sociale” e “Impresa bene comune, il made in Italy dell’antimafia”.

*a cura di Marco Genovese e Tatiana Giannone

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