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Tredici anni dall’uccisione del giornalista Antonio Russo

a cura di Ossigeno il . Internazionale

L’omicidio dell’inviato di Radio Radicale, morto nel 2000 in Georgia, è rimasto impunito

Antonio Russo è stato ucciso la notte tra il 15 e il 16 ottobre del 2000 in Georgia: il suo corpo venne ritrovato ai bordi di una strada di campagna a 25 km dalla capitale Tblisi. Due giorni dopo sarebbe tornato in Italia: stava seguendo la guerra in Cecenia e aveva rivelato ad alcune persone, fra cui la madre, di avere le prove di violenze e torture compiute da soldati russi sulla popolazione cecena.

Il suo omicidio è rimasto impunito e misterioso: l’autopsia rivelò che era morto a causa di colpi, inferti alla cassa toracica, che avevano danneggiato gli organi interni. Il suo appartamento venne trovato a soqquadro e senza il materiale di lavoro: mancavano computer, videocamera, registratore, taccuini e nastri. Nessuna traccia delle videocassette che, aveva detto, contenevano le prove delle torture.

Il giornalista faceva anche parte del Partito radicale transnazionale, di cui poco tempo prima della sua morte la Russia aveva richiesto l’espulsione – poi negata – all’Onu, poiché il partito aveva concesso diritto di tribuna alla Commissione diritti umani delle Nazioni Unite a rappresentanti del popolo ceceno definiti “terroristi” da Mosca.

Dopo tredici anni Russo non viene dimenticato: lo ricordano colleghi (è stato anche istituito un premio in suo onore), artisti (la sua storia è stata raccontata nel film Cecenia di Leonardo Giuliano, mentre l’attore Ferdinando Maddaloni il 15 ottobre gli ha dedicato uno spettacolo, messo in scena a Roma, intitolato Mai dietro una scrivania) e pochi giorni fa un deputato, Gianni Melilla, ha presentato una interpellanza al ministro degli esteri per cercare di far luce sul suo delitto.

Russo era un giornalista freelance di quarant’anni ed era stato varie volte in scenari di guerra. Collaborava con Radio Radicale, per conto della quale era stato in Algeria, Rwanda, Zaire, Bosnia e Kosovo. Non era un inviato di guerra “classico”: si rifiutava di dormire negli alberghi, preferendo case di amici o quelle che, come hanno raccontato i giornalisti Ada Pagliarulo e Paolo Martini, lui stesso trovava “per ospitare amici, gente del posto che fosse disposta a raccontare. Per loro e con loro cucinava e beveva […] cercava di sbarazzarsi al più presto degli interpreti e dell’inglese standard da inviato, per assimilare e assimilarsi agli interlocutori del luogo”.

Come freelance in ogni caso non aveva molte tutele e garanzie. Nonostante questo, il bisogno di andare, capire e raccontare era più forte. Realizzò, fra gli altri, un “memorabile servizio sul Kosovo, dove rimase, ultimo giornalista europeo, a raccontare la “pulizia etnica” da una casa nella Pristina percorsa dai rastrellamenti dell’armata serba”, ha ricordato Massimo Bordin, ex direttore di Radio Radicale. Dalla città sotto assedio fu costretto poi a scappare: lo fece mischiandosi ai profughi su un treno. Nessuno ebbe sue notizie per giorni, finché non ricomparve a Skopje, capitale della Macedonia.

Però, spiega ancora Bordin, “Antonio non era un eroe e tanto meno un incosciente. Non era un “pistarolo” a caccia di scoop ma un cronista umile e coscienzioso. Si metteva dall’angolo visuale dei più deboli e ne raccontava la persecuzione e la tragedia, a prescindere dalle voghe politiche e dalle pulsioni rivoluzionarie. Voleva documentare quanto negli angoli del mondo, ma anche a un braccio di mare dalle nostre città, i diritti umani essenziali venissero calpestati nell’indifferenza generale. La sua rivoluzione erano i diritti della persona che dovevano divenire Diritto, e poi necessariamente giurisprudenza, a livello mondiale”.

Leggi anche: http://www.radioradicale.it/antonio-russo

 – OSSIGENO

 

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