Catania, verità e giustizia sul “laboratorio dei veleni”
C’era chi sentiva all’interno del proprio corpo uno sciabordio, un rumore di acqua ad ogni respiro sempre più faticoso. Chi era perseguitata da mal di testa lancinanti. Chi perdeva un bambino al sesto mese di gravidanza per mancata ossigenazione. Chi si accasciava sul posto di lavoro per morire poco dopo un’inutile corsa in ospedale. Una lunga scia di morti e malattie gravi, tutte persone legate da un solo luogo: la facoltà di Farmacia di Catania. Sono questi i pochi punti fermi in una delle vicende più complicate con la quale l’Università etnea e l’intera città sono state costrette a confrontarsi dal novembre 2008. Da quel confuso autunno, i dipartimenti della facoltà, le sue aule al piano seminterrato ribattezzate il laboratorio dei veleni, diventano il centro di uno scandalo che vede giorno dopo giorno emergere una storia fatta di sversamenti di sostanze chimiche, irregolarità nella gestione delle attività laboratoriali, sospetti e accuse messi a tacere.
È una mattina come tante altre quando l’edificio 2 della Cittadella universitaria viene sequestrato dalla Procura etnea, messa in allarme da un esposto anonimo e da un documento chiaro, preciso e circostanziato scritto nel 2003 da un giovane dottorando della facoltà. Emanuele Patanè si trova negli Stati Uniti per cercare una cura al cancro ai polmoni, una malattia che lo ucciderà di lì a poche settimane, quando si mette a lavorare al suo portatile. «Con la presente descrivo un dannoso e ignobile smaltimento di rifiuti tossici e l’utilizzo di sostanze e reattivi chimici potenzialmente tossici e nocivi in un edificio non idoneo a tale scopo e sprovvisto dei minimi requisiti di sicurezza». Emanuele racconta di cappe di aspirazione non funzionanti, odori tossici, sversamenti nei lavandini. La sua testimonianza postuma e la denuncia anonima fanno scattare le indagini. Le attività di tutti i corsi di laurea della facoltà vengono bloccate, gli studenti – perlopiù ignari – cercano risposte da docenti altrettanto confusi dal clamore che in pochissimo tempo travolge un’istituzione mai messa in discussione fino a quel momento. Si avviano così i percorsi per due processi. Quello per omicidio colposo e lesioni è ancora fermo in attesa dell’avviso di chiusura delle indagini. Alla fase finale è invece giunto il procedimento per disastro ambientale e gestione di discarica non autorizzata nel periodo che va dal 2004 al 2007. Ad essere imputati sono in otto: i vertici dell’Università di Catania (il direttore amministrativo, il dirigente dell’ufficio tecnico, il responsabile del servizio prevenzione e protezione dai rischi) e quelli della facoltà (l’ex preside, il direttore del dipartimento di Scienze farmaceutiche e tre membri della commissione sicurezza). La fase dibattimentale si chiuderà il 20 dicembre, quando il nuovo pubblico ministero – che sostituirà il magistrato che segue dagli inizi la vicenda, trasferito a Potenza – procederà con la requisitoria.
L’intera vicenda sembra essere avvolta dalla stessa strana nebbia acidula che i dipendenti notavano al mattino dentro i laboratori. Stranezze o coincidenze, i docenti in pensione e il personale tecnico-amministrativo raccontano una versione della storia che viene decisamente alleggerita dai professori che ancora lavorano per l’Ateneo. La prima lettera sugli strani odori che rendevano l’aria irrespirabile risale al maggio 2000. Dai documenti acquisiti dalla Procura come prove e dalle numerose testimonianze è riscontrabile che le provette delle esercitazioni degli studenti venivano svuotate nei lavandini della struttura. Le sostanze che servivano alle varie attività, anche di ricerca, venivano conservate in armadietti arrugginiti. Le cappe di aspirazione avevano bisogno di continue manutenzioni. Una situazione sospetta che viene descritta costantemente da verbali del consiglio di facoltà, note inviate alla dirigenza dell’università, lettere protocollate e reclami all’Asl. Le segnalazioni di malesseri si susseguono, tanto da provocare un ricovero urgente per un tecnico di laboratorio e, in più occasioni, la sospensione delle attività didattiche. La ditta incaricata del servizio di pulizie si rifiuta di svolgere il proprio lavoro, il personale tecnico chiede in massa il trasferimento.
La prima azienda chiamata a fare dei controlli nell’edificio non ottiene grossi risultati, tanto che nel 2006 ne viene convocata urgentemente una esperta nella bonifica di grossi siti industriali. Ma le contraddizioni continuano: il piano di messa in sicurezza urgente viene limitato e l’Università rifiuta i carotaggi all’interno del seminterrato. Nel frattempo, però, viene rifatto completamente l’intero impianto fognario ridotto a pezzi. Lavori non comunicati alla ditta impegnata a capire l’entità dell’eventuale stato di contaminazione, che di fatto non viene messa in condizioni di poter approfondire le indagini approfittando degli scavi in corso. Nel 2006, dunque, lo scenario di partenza viene stravolto completamente, mentre si riscontrano segnalazioni simili a quelle da tempo protagoniste nell’edificio 2 anche in dipartimenti posti a valle all’interno della cittadella.
Nell’arco di circa dieci anni, muoiono 15 tra ricercatori e personale della facoltà, una ventina si ammalano di malattie gravi. Numeri che potenzialmente potrebbero essere rivisti all’eccesso. Tumore ai polmoni, al cervello, leucemie. Per molti anni si vive tra i corridoi del dipartimento Con il fiato sospeso, come il titolo del film di Costanza Quatriglio che parte proprio dal memoriale di Emanuele Patanè. Un’opera che ben rende l’incertezza della vita quotidiana di chi credeva in quel che faceva, il panico di non sapere più di chi potersi fidare, la rabbia nello scoprirsi traditi. Scienze e giustizia si muovono su binari paralleli, alla ricerca di una verità ancora lontana. Soprattutto per quanti non camminano più su questa Terra e per chi li ha amati.
* Carmen Valisano è è caporedattrice di CTzen.it, giornale online nato nel dicembre 2011 dall’esperienza di Step1, magazine universitario tra i primi ad occuparsi della vicenda del “laboratorio dei veleni”.
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