Quel lontano 1982, oggi così vicino: la memoria del prefetto Dalla Chiesa
Trentun anni sono tanti. Ed a colmarli non basta una targa su un muro, in una delle vie più conosciute del centro di Palermo. Da quel 3 settembre 1982, da quella sera in cui il prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa, sua moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo furono investiti da micidiali scariche di AK 47 (il mitra russo che da allora firmò molte esecuzioni mafiose), molte cose sono cambiate nella lotta a “cosa nostra”, anche grazie al suo sacrificio. Eppure, pur essendo stato detto e scritto molto, forse quasi tutto, dietro quella esecuzione restano ancora molti punti oscuri. Misteri italiani, si dirà, ma c’era dell’altro in quella morte “annunciata”, nel vero senso del termine, addirittura da una telefonata a fine agosto di quell’anno, dalla solita voce anonima e mafiosa: in quelle raffiche di mitra c’era un senso di sfida allo Stato che veniva da chi aveva ucciso Dalla Chiesa e da chi lo aveva lasciato solo e senza veri poteri nella lotta allamafia,come lo stesso Dalla Chiesa aveva detto quasi un mese prima in una clamorosa intervista a Giorgio Bocca: “Mi mandano in una realtà come Palermo, con gli stessi poteri del prefetto di Forlì“aveva detto. Solo: con il suo lavoro, le sue intuizioni, la sua A112, la moglie, l’agente di scorta, in una città che, allora, stava a guardare. Ma dopo quella sera a Via Carini a Palermo, forse anche per quel cartello appeso il giorno dopo sul luogo dell’eccidio da una mano sconosciuta e che diceva “Qui è morta la speranza dei palermitani onesti”, la lotta alla mafia cambiò. Lentamente ed a strattoni, come la storia ci ha poi insegnato. Un lampo di decisioni politiche dopo ogni delitto eccellente,cui seguirono poi tentativi di marce indietro: ma la sua eredità di investigatore e di’politico’, divenne poi condivisa. Ed ancora oggi se ne leggono le tracce. Per questo, ancora 31 anni dopo, è importante celebrarne la memoria.
La sua barbara uccisione costrinse la politica e le istituzioni ad uscire dalle secche dell’immobilismo, dal silenzio del governo. Dopo di lui il Parlamento si ricordò di avere messo sul “binario morto” le innovative proposte di legge di Pio La Torre, ucciso il 30 aprile dello stesso anno e si decise ad approvarle il 13 settembre, solo dieci giorni dopo l’agguato di via Carini. Furono così introdotti nell’ordinamento italiano l’articolo 416 bis che sanziona il reato di associazione di tipo mafioso e le misure di prevenzione patrimoniale, come il sequestro e la confisca dei beni dei mafiosi. Grazie alla Legge Rognoni La Torre, il pool antimafia dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, i magistrati come Falcone e Borsellino per intenderci,cominciarono a lavorare portano agli arresti clamorosi ed al maxi processo di Palermo; per la prima volta nella storia d’Italia, portò alla sbarra i capimafia e li fece condannare in via definitiva, dimostrando l’esistenza di un fenomeno che, fino allora, era stato persino negato nel suo nome, la mafia. Dopo Dalla Chiesa alcune sue intuizioni sono diventate la base di qualsiasi strategia che voglia risultare convincente, prima ancora di essere vincente, nella lotta contro la criminalità organizzata di stampo mafioso.
Sia lui che Pio La Torre vissero da protagonisti gli anni in cui la mafia stava cambiando pelle e stava spostando il baricentro dei suoi affari dalle campagne alle città, da Corleone ai traffici internazionali di droga conditi da nostrani ed appetitosi appalti pubblici. Sia lui che Pio La Torre videro in diretta l’ascesa irresistibile dei corleonesi. Ed è singolare come entrambi, alla fine, abbiano poi maturato le medesime convinzioni in tema di lotta alla mafia, sebbene diversi per origini, credo politico ed esperienze. Nei cento giorni del suo mandato di Prefetto di Palermo, Dalla Chiesa capì che tutto quanto aveva raccolto nei decenni precedenti in termini di conoscenza di Cosa Nostra (anche attraverso l’uso degli infiltrati ed informatori, da lui usati quando era ufficiale dei Carabinieri e ben rappresentati da Sciascia nel memorabile “Giorno della Civetta”), poteva essere messo a frutto, se solo si fosse voluto fare fino in fondo la lotta alla mafia, così come era avvenuto per la lotta al terrorismo. Purtroppo ciò non avvenne: perché era andato oltre “il quadro politico”, aveva rotto gli equilibri del rapporto tra mafia e politica. Quella politica che poco dopo il suo insediamento a Palermo, l’aveva lasciato solo, con i suoi segreti ,le sue informazioni, le sue conoscenze.
Prima di Dalla Chiesa si era messo sempre in dubbio,spesso negato con veemenza dal governo stesso, la centralità del rapporto tra mafia e politica come causa prima della crescita del potere delle cosche. E tutte le volte che si cercava di porre sotto i riflettori quel perverso legame, presente fin dagli albori della “maffia”, si scatenava una polemica furibonda. Ancora oggi questo tema risulta “scabroso” nel teatro della politica,ma allora finiva per essere utilizzato addirittura a sostegno dell’inesistenza della mafia stessa. Se oggi chi prova a parlare di mafia e politica, viene tacitato di fare politica sui fatti di criminalità o sulle inchieste giudiziarie, allora quanti evidenziavano questi rapporti inconfessabili, fossero anche magistrato o rappresentante delle forze dell’ordine, finivano per essere presi per visionari. Fu invece proprio il prefetto-generale a certificare, una volta per tutte, i rapporti inquinati tra settori della politica nazionale quanto locale con le cosche e a portarne l’evidenza in sede di Commissione parlamentare antimafia, con tanto di nomi, fatti e circostanze, una mappa dei nuovi boss, che aveva chiamato “rapporto dei 162”. In quel numero c’erano tutti i capi mafia che poi furono scoperti e processati, anni dopo al pool di magistrati palermitani. L’insistenza poi sulla necessità di recidere i contatti tra pubblica amministrazione e fenomeni criminali fu una sua intuizione, un’acquisizione maturata nel corso dei decenni che lo videro investigare sui clan mafiosi della provincia palermitana. La denuncia della famiglia politica più inquinata del capoluogo siciliano – la corrente andreottiana – fu solo l’ultimo dato acquisito nel corso del tempo, grazie ad una capacità di lettura dei fatti davvero notevole. Per molti osservatori più recenti fu la sua condanna.
Il secondo principio cardine del lavoro di Dalla Chiesa era la consolidata potenza economica della mafia. Nell’analisi del prefetto, le cosche non erano più un soggetto legato al sottosviluppo di alcuni territori, ma piuttosto attori di un veloce cambiamento che avrebbe proiettato le mafie nel centro dell’economia mondiale, più o meno sporca. Colse nella grande disponibilità di capitali uno degli elementi fondamentali per la prodigiosa crescita di “cosa nostra”, capace di farsi forte anche delle collusioni con il sistema bancario: «Il segreto bancario… La questione vera non è lì. Se ne parla da due anni e ormai i mafiosi hanno preso le loro precauzioni. E poi che segreto di Pulcinella è? Le banche sanno benissimo da anni chi sono i loro clienti mafiosi. La lotta alla mafia non si fa nelle banche o a Bagheria o volta per volta, ma in modo globale». In questo passaggio dell’ultima intervista rilasciata a Giorgio Bocca per “la Repubblica” il 10 agosto del 1982, Dalla Chiesa sottolineava l’accumulazione del capitale mafioso come una delle chiavi per capire la forza d’espansione del fenomeno capace di mettere radici ovunque, in virtù dell’enorme disponibilità di denaro impiegato nelle forme più diverse, grazie ai meccanismi del riciclaggio. E parlò di “economia globale”, 20 anni prima che il termine “globalizzazione” diventasse usuale nelle relazioni di banche mondiali ed economisti.
La terza formidabile intuizione, che oggi è ormai fatto notorio, è il “policentrismo” della mafia: non più solo Palermo come luogo di elezione degli affari delle cosche, ma anche Catania, con l’individuazione del perverso patto tra mafiosi e i cavalieri del lavoro, che tanti problemi politici gli procurarono. Dalla Chiesa però aveva capito che la mafia non si era fermato allo stretto di Messina e, lentamente, si era diffusa anche oltre i confini dell’isola siciliana, stando a quanto raccontò sempre a Bocca: «Chiunque pensasse di combattere la Mafia nel “pascolo” palermitano e non nel resto d’Italia non farebbe che perdere tempo». E ancora si legge nell’intervista: «La Mafia ormai sta nelle maggiori città italiane dove ha fatto grossi investimenti edilizi, o commerciali e magari industriali». Da questa interpretazione derivava la richiesta di avere i poteri per coordinare seriamente la lotta alla mafia, non potendo più pensare di farlo solo nel palermitano. Non li ebbe mai: così fu isolato dalle istituzioni locali, fortemente condizionate dai legami correntizi della Democrazia Cristiana. E quindi anche dal potere centrale governativo.
L’ultimo, ma non meno importante, principio fondante l’azione antimafia per il prefetto Dalla Chiesa risiede nella “prevenzione” ed anche nella Cultura, nel lavoro sociale, si direbbe oggi. Un investigatore come lui, uno sbirro con la “s” maiuscola come amava definirlo Gian Carlo Caselli, un rappresentante delle forze dell’ordine, parlò ripetutamente della necessità di lavorare sulla cultura, sulla formazione per arrivare a sconfiggere la mafia. Perché aveva capito che la mafia si alimentava costantemente di una sub-cultura dell’illegalità, del sopruso, della corruzione. Vincere la battaglia contro le mafie significava trasformare nuovamente in cittadini della Repubblica quelli che erano diventati i sudditi della mafia. Ecco perché volle incontrare studenti e categorie produttive, per spiegare che la battaglia contro le mafie aveva bisogna dell’impegno di tutti, di una corale assunzione di responsabilità, senza alcuna delega. E restano ancora di straordinario valore le parole rivolte agli studenti del liceo Gonzaga di Palermo, il 2 giugno 1982: «La vita va vissuta, la vita deve essere scoperta e raggiunta non soltanto per un divertimento, per un divertimento ed uno svago, la vita è fatta di sofferenze, di rinunzie, di dolori, di delusioni e di amarezze. Solo attraverso questo humus voi potrete raggiungere delle soddisfazioni, solo attraverso la rinunzia e il sacrificio voi potrete raggiungere quanto e di vostra intima soddisfazione: quella di essere, quella di divenire». E in aggiunta, anche la ferma condanna del sentire comune e dell’agire “mafioso”: «La speculazione, la collusione, la corruzione, tutto quello che è tentativo per emergere, tutto quello che è tentativo o ricerca esasperata di avere milioni, per avere una facciata di maggiore prestigio, per essere migliori di fronte al prossimo, per apparire, non per essere migliori, di fronte al prossimo. Tutto questo non serve, tutto questo è stato il danno di ieri».
E allora si coglie l’importanza fondamentale del lavoro culturale e formativo che, dopo tanti anni, è ormai una delle caratteristiche principali dell’antimafia sociale . Cambiare il modo di pensare e ripristinare la scala di valori condivisi nella nostra Costituzione, infatti, aiuta le persone a non cadere nell’illusione di un facile successo, di una scorciatoia verso l’arricchimento possibile con la sopraffazione e la violenza mafiosa,oltre ogni regola di convivenza civile. Per questo, anche per questo la memoria del prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa , del sacrificio suo, della moglie e del suo unico agente di scorta deve ancora oggi essere ricordato e celebrato. Per quella memoria condivisa che diventa Cultura ed educazione al rispetto delle regole, della convivenza civile, della persona e della democrazia. Che sono poi il fondamento della lotta alla mafia, ieri come oggi. Ed anche domani.
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