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Antonio Esposito Ferraioli, a 35 anni dall’omicidio si lotta per la verità

di Federico Esposito* il . Campania

Pagani è un agglomerato di chiese e cemento che segna il confine tra le province di Napoli e Salerno. Un paesone che non sa scegliere a quale periferia aderire in quella terra di mezzo che è l’agro nocerino-sarnese. Laggiù, nel ventre della Campania, neanche i morti di camorra hanno la gloria che solitamente gli si riserva. È il 30 agosto del 1978. L’accozzaglia di abitazioni popolari a due passi dal centro è il rione palazzine. Alle due di notte una A112 blu con i fari spenti si ferma all’angolo di via Zito. È un attimo. Due colpi di lupara alla schiena e Tonino si accascia a terra in una pozza di sangue. L’auto scappa, le finestre restano mute nel caldo umido di agosto, nessuno pare accorgersi di niente. Lei ha visto tutto. Angela è affacciata, urla di disperazione. Tonino stava rientrando a casa dopo la solita serata trascorsa insieme. Lei lo accompagnava dall’alto con lo sguardo verso la sua Citroen. Avrebbero dovuto sposarsi di lì a breve ma il sogno di una vita si frantuma in quegli istanti, con quei colpi secchi risuonati nel silenzio della città. La corsa all’ospedale serve a poco. Dopo un’ora Tonino muore ammazzato a 27 anni.

Antonio Esposito Ferraioli, Tonino, era un giovane cuoco che lavorava alla mensa dello stabilimento paganese della FATME, azienda leader nel settore dell’elettronica. In quegli anni la passione per l’impegno sociale avuta fin da giovanissimo con gli scout si era trasformata in fervore politico con l’iscrizione al Pci e alla Cgil. In azienda era delegato sindacale. Amava il suo lavoro, scrupoloso nel preparare i pasti per i colleghi operai e per i loro figli, ospitati nell’asilo nido dello stabilimento. Un posto tranquillo, lontano dalla “monnezza” di quegli anni. A Pagani infatti la guerra di camorra imperversava per le strade. Da un lato i fedelissimi di Raffaele Cutolo, decisi ad espandere il dominio del “professore”, dall’altro i camorristi locali, a difendere uno degli ultimi feudi rimasti. Si sparava tanto che alla città fu dato un soprannome eloquente: far west. Tonino era a lavoro quando si accorse che la fornitura di carni arrivata nella sua cucina era marcia, avariata. Era da tempo che in veste di delegato sindacale si batteva per migliorare la qualità delle forniture. Docile e schivo nella vita, rappresentava i suoi colleghi con tenacia e passione, come quando finito il turno si dedicava ad assistere i disabili in città. Quando la partita di carni arrivò in mensa pensò che il limite era superato: quella “fetenzia” era il risultato di una truffa ai danni della Comunità Europea messa in atto dalla camorra e da alcuni amministratori comunali. Le battaglie in fabbrica allora non bastavano più. Decise di denunciare.

Non fece in tempo. La notte del 30 agosto del 1978 fu ammazzato da due colpi di lupara alla schiena. Nell’anno di Aldo Moro, come per Peppino Impastato, di Tonino nessuno si accorse. Eppure era un’altra morte che puzzava di politica e mafia. In pochi restarono a lottare. I compagni di partito, il sindacato, gli amici di sempre. I familiari si rinchiusero in un silenzio di dolore mentre la città dimenticava in fretta quel ragazzo, chiusa in silenzi di vergogna. Oggi ricorre il trentacinquesimo anniversario dalla morte e giustizia non è stata fatta. Gli assassini sono tuttora a piede libero in una città che conosce facce e nomi e che quel marchio del passato non lo ha ancora scacciato (comune attualmente sciolto per infiltrazioni mafiose). Dopo la morte gli inquirenti avviarono una intensa attività investigativa, non arrivando però a riscontri concreti. Voci e sospetti negli anni hanno circondato la vicenda. Il barbaro omicidio, secondo quanto stabilito in un dibattimento alla Camera dei Deputati nel 1980, sarebbe riconducibile ad ambienti vicini al clan di Salvatore Serra, detto “cartuccia”, che all’epoca esercitava un controllo diretto sulle aziende della zona. Sotto accusa finirono il pregiudicato Giuseppe De Vivo, detto “o russ”, e l’imprenditore e politico della Dc cittadina Aldo Mancino, poi prosciolti per insufficienza di prove. Nel 2001 un’apparente svolta. Le dichiarazioni del pentito Biagio Archetti fecero riaprire l’inchiesta, proprio quando l’amministrazione comunale di allora istituiva il Premio Legalità “Esposito Ferraioli”. Il collaboratore di giustizia accusava nuovamente Mancino e De Vivo di essere i mandanti dell’assassinio. I due erano in affari con una delle ditte che fornivano la mensa. Le indagini, riavviate dal p. m. antimafia Vito Di Nicola, si risolsero comunque in un nulla di fatto. E così nel 2013 la giustizia non ha ancora dato un volto e un nome ai mandanti. Tonino non è riconosciuto ufficialmente come vittima innocente di camorra ma parte della città ha ripreso la sua storia. Se per molti anni quella vita è stata ricordata soltanto da una targa in memoria posta sul luogo del delitto, è ormai da tempo che l’associazione nata in suo nome si ostina a lottare. E se il ricordo si nutre di scuole, premi, spettacoli teatrali, film, strade e camere del lavoro intitolate, è bello pensare, dopo trentacinque anni, che anche questa storia sia conosciuta e riconosciuta, trasmessa oggi da chi continua ad urlare verità che dall’alto nessuno riconosce.

 

*IlCorsaro.info

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