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In memoria delle vittime della mafia, non si uccida la speranza

di Davide Pati il . L'analisi

Erano più  di trecento a Partanna, lo scorso 26 luglio, i giovani giunti da ogni parte d’Italia per fare memoria di Rita Atria, testimone di giustizia, il cui nome e volto figura, dopo un lungo e doloroso ostracismo, anche sulla sua lapide. “L’unica speranza è non arrendersi mai: la giustizia e la verità vivrà contro tutto e tutti” scriveva nel suo diario Rita, prima di quel 19 luglio di ventuno anni fa, quando il Suo Giudice – Paolo Borsellino – venne ucciso insieme con Emanuela, Claudio, Eddie Walter, Vincenzo e Agostino.
Una settimana dopo, nel caldo torrido di un’estate romana, Rita decise che non poteva più vivere senza Paolo. Conoscono bene la storia di Rita i giovani che in questi giorni stanno partecipando al Raduno nazionale organizzato da Libera a Marsala. Giovani impegnati, dal Nord al Sud del nostro Paese, nei percorsi di formazione e di educazione alla legalità nelle scuole e nelle Università, nei campi di volontariato di Estate Liberi sui beni confiscati alle mafie, nelle attività di animazione e coesione territoriale. Giovani che sono coinvolti emotivamente dalle testimonianze dei familiari delle vittime della criminalità e che non fanno mancare la loro presenza nelle aule di giustizia, al fianco di quegli imprenditori che trovano il coraggio della denuncia. Giovani che, come Rita, non si stancano di ripetere che “forse un mondo onesto non esisterà mai, ma chi ci impedisce di sognare. Forse se ognuno di noi prova a cambiare, forse ce la faremo”.
Credono fortemente in una Politica al servizio del bene comune. Guardano fiduciosi a un fare Politica autentica e coerente ai valori della Costituzione. Considerano come esempi da imitare quei sindaci e amministratori pubblici che tengono dritta la barra dell’onestà e non la piegano alla corruzione e alle connivenze. Sono giovani convinti della responsabilità delle parole come legalità, giustizia, verità, oggi troppo spesso abusate e pronunciate anche da chi le calpesta quotidianamente. Con la loro responsabilità e impegno, questi giovani confermano la validità del pensiero di Paolo Borsellino quando disse “Se la gioventù le negherà il consenso, anche l’onnipotente mafia svanirà come un incubo”.
Oggi fanno memoria del commissario di polizia Beppe Montana, dirigente della sezione catturandi della Questura di Palermo, ucciso dalla mafia in quell’estate del 1985, insieme con Ninni Cassarà e Roberto Antiochia. E domani lasceranno la Sicilia nel ricordo del giudice Rocco Chinnici, ucciso da un’autobomba trent’anni fa, il 29 luglio 1983, insieme con Mario Trapassi, Salvatore Bartolotta e Stefano Li Sacchi. Il giudice Chinnici, che proprio a Partanna svolse le funzioni di Pretore, credeva nel coinvolgimento degli studenti nella lotta alla mafia e spesso parlava nelle scuole sui pericoli della droga. “Parlare ai giovani, alla gente, raccontare chi sono e come di arricchiscono i mafiosi, fa parte dei doveri di un giudice. Senza una nuova coscienza, noi, da soli, non ce la faremo mai (…). Io credo nei giovani. Credo nella loro forza, nella loro limpidezza, nella loro coscienza.
Credo nei giovani perché forse sono migliori degli uomini maturi, perché cominciano a sentire stimoli morali più alti e drammaticamente veri. E in ogni caso sono i giovani che dovranno prendere domani in pugno le sorti della società, ed è quindi giusto che abbiano le idee chiare”.I giovani di Libera, riuniti in questi giorni a Marsala, hanno riflettuto e si sono confrontati sulle priorità in materia di antimafia e anticorruzione. Chiedono una modifica seria e senza compromessi al ribasso dell’articolo 416 ter del codice penale sui rapporti tra mafia e politica. Chiedono un intervento legislativo per dare più strumenti e forza all’azione dell’Agenzia nazionale dei beni confiscati, un sostegno maggiore per moltiplicare le esperienze di buona economia sociale e di lavoro vero, derivante dal riutilizzo sociale di quei patrimoni sottratti ai boss.Chiedono allo Stato di stare al fianco dei familiari delle vittime delle mafie e di chi, come Rita, ha voluto testimoniare verità e giustizia.Chiedono tutto questo anche perché sono ben consapevoli che le mafie sono vive e, soprattutto in un periodo di crisi economica, etica e di instabilità politica, rafforzano la loro capacità di inquinare pezzi di economia, finanza e di governo del territorio. Costruendo consenso sociale, grazie a rassegnazione, paura, sfiducia e indifferenza, che prendono il sopravvento.Loro non ci stanno proprio a tutto questo. E gridano con forza la loro rabbia, che è un segno di amore verso un’Italia a cui chiedono di trovare il coraggio di riprendersi il proprio futuro.
Una speranza che non si spegnerà finché nessuno si considererà seduto al capolinea, già arrivato. Ripartendo ogni volta, risalendo sui tetti ed annunciando parole di vita.  Come ci hanno insegnato don Pino Puglisi e don Peppino Diana, “martiri in odium fidei”,  la cui bellissima eredità di spirito oggi viene raccolta da quei stupendi giovani, provenienti da ogni parte del mondo, che si sono riuniti attorno a Papa Francesco nella Giornata mondiale della Gioventù in Brasile.Testimoni di una Chiesa che vuole pronunciare parole forti contro le mafie, a distanza di venti anni dall’appello di Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi di Agrigento e della reazione di Cosa Nostra, con le bombe a San Giovanni in Laterano e San Giorgio al Velabro. Esplose nella stessa notte tra il 27 e il 28 luglio 1993, quando a Milano, in via Palestro, rimasero vittime di quella violenza criminale i vigili del fuoco Carlo La Catena, Sergio Pasotto e Stefano Picerno, l’agente di polizia municipale Alessandro Ferrari e Moussafir Driss, immigrato marocchino che dormiva su una panchina. Anche loro vittime innocenti delle mafie, come Rita Atria.

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