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Quella che descrivete non è la nostra Calabria. Chi racconta i partigiani?

di Alessandro Russo il . Calabria

Sono convinto che i pregiudizi contro la Calabria e i calabresi siano frutto di una rappresentazione grottesca, sommaria e unidirezionale dei mali della Calabria. Che sono la ’ndrangheta, il malaffare, la malapolitica, la corruzione, la rassegnazione, l’indifferenza, lo scarso amore che alcuni calabresi hanno verso la loro terra, che li porta a inquinarla e depredarla. Mali che hanno nemici mortali: i calabresi onesti, i calabresi che lottano ogni giorno per strappare pezzi di presente alla ’ndrangheta, i calabresi che non vogliono farsi rubare il futuro, i calabresi che amano la propria terra, la difendono e se ne prendono cura. I pregiudizi, oggi, sono alimentati in larga parte dalla rappresentazione sommaria data da alcuni organi di informazione, che prendono accuratamente nota dei mali, ma tacciono sui nemici giurati di questi mali. L’opinione pubblica si può formare al mercato, al bar, oggi tantissimo su internet: ma quando il pregiudizio è latente, sedimenta da decenni, la botta dei media tradizionali – stampa e televisione – può fare la differenza.

Da giornalista, mi viene da ridere quando mi spiegano che i giornalisti fanno solo il loro mestiere quando si occupano dei mali della Calabria e, se devono trovare elementi positivi, lo fanno tra le pieghe dei comunicati delle brillanti operazioni contro le cosche. È vero – fanno – facciamo il nostro mestiere: ma è un dovere monco. Perché della Calabria restano solo la ’ndrangheta e gli scandali da una parte, i magistrati e le forze dell’ordine dall’altra. I calabresi – gli altri calabresi, la maggioranza – dove sono? È come se qualcuno ci spiegasse che uno storico fa il proprio dovere a raccontare la Liberazione solo dal punto di vista degli occupanti nazi-fascisti e dei liberatori anglo-americani. E i partigiani? E gli italiani che non si piegarono al regime? E quelli che pagarono con la vita il prezzo della libertà? Torniamo in Calabria, sessantotto anni dopo: e i calabresi, dove sono? Quelli che non sono collusi, quelli che non si arrendono, quelli che combattono lontano dai riflettori, dove sono?

Molti sostengono che la rappresentazione di una Calabria a una dimensione – ’ndrangheta – abbia una sua logica commerciale. Credo che sia in parte vero, almeno per quanto riguarda i giornali nazionali: la regola delle tre “s”, sesso, sangue e soldi, che un tempo indicava i tre elementi necessari per rendere accattivante la prima pagina di un giornale, è in qualche modo attuale anche oggi. Quando mancano i pruriginosi delitti di provincia la Calabria è lì, bella e disponibile a riempire la casella “sangue”, magari con pezzi superficiali. Non è una questione di razzismo, semplicemente c’è una casella da riempire: passata la moda di Scampia, ritorniamo in voga noi. Non ritengo, invece, che questo tipo di logica commerciale valga anche per l’informazione locale che – a mio avviso non a caso – è colpita dalla crisi che sta investendo la carta stampata in modo maggiore di quanto avvenga nel resto d’Italia. Il prurito della notizia di nera o di giudiziaria viene soddisfatto ampiamente – quando c’è – dagli organi di informazione online o dai social network: i giornali di carta o le televisioni, se non riescono a offrire altro, se non riescono a entrare nel fatto e a farlo vedere da tutti i punti di vista, a spiegare quali mutamenti quel fatto potrà portare nella vita dei calabresi, diventano ripetitivi e, in parte, inutili.

Può solo partire dalla Calabria un nuovo modo di fare informazione sulla Calabria. Nessun inviato dall’alto ha interesse a offrire una rappresentazione diversa. Occorre ripristinare il “valore democratico” di una narrazione, che abbia la capacità di lasciare un segno e che non faccia solo un botto come un mortaretto. Che imponga una calabresità vera all’opinione pubblica, fregandosene altamente di giornali e editori nazionali che chiedono altro. Non si tratta, ovviamente, di tifare per chi dice che è tutto ’ndrangheta o per coloro che, invece, dicono che è tutto bellezze naturali, tesori culturali, ’nduja e cipolla di Tropea. Si tratta di scardinare questa contrapposizione caricaturale. Perché, se la ’ndrangheta è innanzitutto la malattia mentale della Calabria, esiste una cura rappresentata dall’esempio di coloro che, lontano dai riflettori, giorno dopo giorno sottraggono spazio alle mafie. Dietro l’omicidio di un innocente c’è sempre una famiglia che si ribella. Dietro un’estorsione c’è spesso un commerciante che denuncia. Dietro malaffare e pressappochismo c’è sempre qualcuno che pratica eccellenza e onestà nel proprio lavoro.

Non spero nella noiosa intellighenzia calabrese, più impegnata a dissertare del valore ideologico delle passeggiate sui monti che a chiedersi come mai il blocco sociale di potere dei soliti noti sia intatto da vent’anni. O a chiedersi se la Calabria sprofonda anche con la responsabilità di una cultura che si parla e si scrive addosso, sempre nei soliti posti, sempre con i soliti codici e sempre per i soliti intimi, lasciando campo libero a quel misto di disinteresse e conformismo che assomiglia a un’egemonia gramsciana dalla parte sbagliata. Spero molto nei giovani e in tutti quelli – operatori dell’informazione e non – che hanno ben presente che c’è una Calabria “che vuole essere parlata” , citando Alvaro, nel modo giusto. Non credo che sia un caso che tra i commenti più letti, di gran lunga, dopo le infelici esternazioni di Francesca Chaouqui sull’assassinio di Fabiana Luzzi, ce ne siano tanti di non addetti ai lavori.

In un film cult di Vittorio De Sica, “L’oro di Napoli”, un vedovo inconsolabile interpretato da Paolo Stoppa corre verso il balcone in modo teatrale per buttarsi sotto e suicidarsi. A un attimo dal suicidio, però, si gira per controllare che ci siano i parenti e gli amici a impedirglielo (come farà notare più avanti Martin Scorsese, né prima né dopo, ma proprio nell’esatto momento in cui doveva voltarsi, per farsi salvare senza dare l’impressione che la pretesa di suicidarsi fosse tutta una finta). Una scena che i cinefili hanno ben impressa nella memoria, perché incarna tutta insieme la melodrammaticità e la genialità di alcuni meridionali. Mi torna in mente Paolo Stoppa perché sento da molte parti dire che la Calabria, ormai, si è suicidata. Per me questa regione è sull’orlo del balcone, come quel vedovo inconsolabile: si sta voltando, un attimo prima. Ci guarda. Sta a noi tenderle le braccia.

 

* di Alessandro Russo per Scirocconews

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