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Emergenza penitenziari. «Carceri disumane: rinviare la pena?»

di Antonio Maria Mira per "Avvenire" il . Istituzioni

La pena è legale solo se non consiste in trattamento contrario al senso di umanità», perciò «la pena inumana è “non pena” e dunque andrebbe sospesa o differita in tutti i casi in cui si svolge in condizioni talmente degradanti da non garantire il rispetto della dignità del condannato». Lo scrive il Tribunale di sorveglianza di Venezia nell’ordinanza di rinvio alla Consulta, ponendo la questione di costituzionalità dell’articolo 147 del Codice penale che prevede il differimento della pena solo per infermità fisica o mentale, e per detenute-madri con figli di meno di 3 anni. Ma non «per trattamento disumano e degradante», quale è il sovraffollamento, così come stabilito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in meno di 3 mq per detenuto. Una richiesta sulla quale la Consulta deciderà nei prossimi mesi, come annunciato dal presidente, Franco Gallo. «La affronteremo con più urgenza possibile, entro luglio e poco dopo l’estate».
Non è l’unica ordinanza perché una, praticamente uguale (violazione degli articoli 3, 27 e 117 della Costituzione), è stata inviata dal Tribunale di sorveglianza di Milano che ritiene che «il detenuto stia subendo un trattamento “disumano” e degradante e che, dunque, si pone in tutta evidenza una questione di compatibilità della sua detenzione con i principi di non disumanità della pena e di rispetto della dignità della persona detenuta sottesi all’applicazione proprio dell’istituto del differimento della pena». Ma questa, come detto, si può applicare solo in specifici casi (malattia e maternità) e non per il sovraffollamento che i due Tribunali descrivono in modo puntiglioso (vedi altro articolo). Invece, scrivono, il differimento sarebbe «l’unico strumento di effettiva tutela in sede giurisdizionale al fine di ricondurre nell’alveo della legalità costituzionale l’esecuzione della pena a fronte di condizioni detentive che si risolvono in trattamenti disumani e degradanti».
Una situazione che, secondo in giudici, contrasta nettamente con l’articolo 27 della Costituzione, non solo perché i «trattamenti» sono «contrari al senso di umanità» ma anche «al finalismo rieducativo». «Ogni pena eseguita in condizioni di “inumanità” – scrive infatti il Tribunale di Milano – non può mai dispiegare pienamente la sua finalità rieducativa poiché la restrizione in spazi angusti, a ridosso di altri corpi, produce invalidazione di tutta la persona e quindi deresponsabilizzazione e rimozione del senso di colpa non inducendo nel condannato quel significativo processo modificativo che, attraverso il trattamento individualizzato, consente l’instaurazione di una normale vita di relazione».
Una condizione per la quale i magistrati denunciano di avere le mani legate. «Il Tribunale di sorveglianza – scrivono le toghe di Venezia – è chiamato a dover dare applicazione al principio di non disumanità della pena in un caso in cui, pur ricorrendo i parametri in fatto di un trattamento disumano e degradante, così come verificati in casi analoghi dalla costante giurisprudenza della Corte europea, non si può ricorrere all’istituto del rinvio facoltativo della pena, poiché tale ipotesi non si trova ricompresa tra quelle tassativamente previste dalla norma». E dunque, aggiungono, «da un lato il trattamento inumano non potrebbe tollerare una sua indebita protrazione», ma «dall’altro si deve registrare la sostanziale ineffettività della tutela riconosciuta».
Anzi, rincara la dose il Tribunale di Milano, «il magistrato di sorveglianza, qualora accerti la violazione di un diritto del detenuto da parte dell’Amministrazione penitenziaria e ne ordini la rimozione, non ha, tuttavia, alcun potere di intervento diretto in caso di inerzia». E ricorda come siano passati invano 14 anni dalla sentenza della Consulta con la quale «il Parlamento era stato invitato a prevedere forme di tutela giurisdizionale nei confronti degli atti dell’amministrazione penitenziaria lesivi di diritti di coloro che sono sottoposti a restrizione della libertà personale». Ora toccherà nuovamente alla Corte e «con urgenza».
Antonio Maria Mira per Avvenire

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