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Processo Garofalo, il legale di Carlo Cosco:”Fu un raptus”

di Marika Demaria il . Calabria, Lombardia

dall’inviata a Milano, Marika Demaria «Sì, il mio assistito Carlo Cosco ha ucciso Lea Garofalo e per questo deve essere condannato. Ma ha commesso il delitto in preda a un raptus, non con premeditazione». Sono le 14.10 quando Daniele Sussman Steinberg termina con queste parole la sua arringa, iniziata alle undici di questa mattina, 21 maggio. Tre ore intense durante le quali il difensore accusato «di aver ucciso la mamma di sua figlia» ha minuziosamente scardinato vari punti della sentenza di primo grado. Nel prendere la parola, si è immediatamente rivolto ai giudici popolari, invitandoli a non farsi «distrarre dalle parole del procuratore e nemmeno dal bombardamento mediatico a cui questo processo è stato sottoposto. Le confessioni di Carlo Cosco, che il procuratore Tatangelo ha definito “nauseante messinscena” sono in realtà frutto di un lacerante dramma interiore. Lui ed io stiamo cercando di riemergere da tutto questo, ci sentiamo come annegati. Sono state fatte dichiarazioni inammissibili, come quelle secondo cui Carlo Cosco è da un lato amareggiato perché non vede la figlia ma dall’altro la userebbe come esca per uccidere la signora Garofalo, salvo poi pensare di uccidere la stessa ragazza. Sono davvero parole intollerabili». 

L’arringa prosegue. Steinberg si sofferma a lungo sulle dichiarazioni dei tre collaboratori di giustizia – Salvatore Sorrentino, Alberto Schiavone, Angelo Salvatore Cortese – asserendo che le varie versioni coincidono in virtù di un accordo tra le parti e che «il vero regista di tutto, l’alchimista della menzogna è Sorrentino, che secondo il Procuratore sarebbe stato impreciso solo nel fare i nomi di chi avrebbe partecipato all’omicidio del 24 novembre 2009 ,e nel sostenere che furono utilizzati cinquanta litri di acido prelevati dal cantiere dove lavorava Vito Cosco addirittura una settimana prima del tentato omicidio di Campobasso. Solo? Ma ci rendiamo conto! Quel 5 maggio 2009 non può essere considerata come la prova generale di niente: perché quattro persone sarebbero dovute partire per “dare una lezione a Lea” come ci ha spiegato lo stesso Carlo Cosco? Perché pagare 20 mila euro Sabatino? E il dispendio di denaro per i viaggi?». Una tesi che conduce a scagionare di fatto Massimo Sabatino, «incapace di sequestrare una persona e ormai riconosciuto dalla stessa Lea Garofalo attraverso il tatuaggio sul collo».

Poi, il 24 novembre 2009. «Non possiamo credere – prosegue l’avvocato – agli episodi raccontati da Carmine Venturino circa la volontà di Carlo Cosco di uccidere Lea Garofalo nei giorni del suo soggiorno milanese insieme alla figlia Denise. Semplicemente perché dal 2006 al 2008 la donna era uscita dal programma di protezione e lui non le hai mai fatto niente, non l’ha mai cercata, men che meno ha cercato di ucciderla. Per cui, quel giorno, Carlo ha prelevato Lea all’Arco della Pace e l’ha portata nell’appartamento di Floreale. Lì però l’ha uccisa in preda a un momento di incontrollabile follia, mentre Carmine Venturino era in cucina. Il cadavere di Lea Garofalo è livido, tumefatto, ci sono delle fuoriuscite ematiche. Queste sono frutto del pugno che il mio assistito ha sferrato ai danni della ex convivente, che ha sbattuto la testa sul divano e che è morta». Lea Garofalo, secondo la difesa di Carlo Cosco, è stata dunque vittima di un raptus e non di un omicidio premeditato e covato per anni, vittima «come molte altre donne dei propri mariti, dei propri compagni». Per il legale decade anche la versione dello strangolamento perché «è inverosimile che Carlo Cosco sia andato a casa di Venturino, abbia tagliato il cordino della tenda – per non andarla a comprare risparmiando pochi euro – e se la sia portata dietro; tra l’altro noi avevamo chiesto una verifica, considerato che Carmine Venturino aveva parlato di carne penetrata dalla corda, ma ci è stata negata».

Il processo riprenderà alle 15. Stamane l’intervento di Steinberg è stato preceduto da quello dell’avvocato Verga, difensore di Massimo Sabatino, per cui ha chiesto l’assoluzione per non aver commesso il fatto, asserendo che «la sentenza di primo grado si basa, per quanto riguarda i fatti di Milano, su supposizioni che sono facili da contraddire. Per esempio, come si fa a dichiarare che Vito Cosco e il mio assistito si erano messi d’accordo per l’omicidio sulla base di uno squillo di telefono che il primo avrebbe fatto al secondo? Abbiamo la prova granitica dell’innocenza di Massimo Sabatino».

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