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Quaderni messicani

di Flavia Famà il . Internazionale

I “Quaderni messicani” sono a cura di Flavia Famà, fra i volontari che hanno partecipato alla sette giorni di “Giramondi” con Libera in Messico.

I Giorno – Il primo impatto con la città è stato subito molto forte, metrobus diviso in due settori, dietro gli uomini e davanti le donne, separati, perché troppo spesso qui accadono molestie e stupri. La gente sale come se questa soluzione per proteggere le donne sia normale. Arrivati alla Casa de la Cultura Reyes Heroles a Coyoacan incontriamo Paolo Pagliai, professore universitario che vive da 18 anni in Messico e che insieme a don Luigi Ciotti ha dato vita nel 2009 a Libera Universidad. I suoi studenti, alcuni dei quali presenti, ci hanno raccontato la loro esperienza, come ad esempio aiutare a costruire le case per la gente che vive nella discarica di Oaxaca o incontrare i sacerdoti della “red de albergues para migrantes”, che salvano ogni anno migliaia di vite in viaggio verso il sogno americano. Nel pomeriggio ci siamo spostati nella sede di “Serapaz” per incontrare alcune associazioni di difensori dei diritti umani e di assistenza alle vittime. Dopo aver condiviso l’esperienza della rete di “Libera” e della campagna Pace per il Messico- México por la paz, Claudia Cruz, referente di Libera in Messico e Carlos Cruz, Fondatore di Cauce Ciudadano sulla base di quanto succede in Messico e dell’isolamento dei familiari delle vittime e dei difensori dei diritti umani, hanno proposto con forza la creazione di una rete messicana di antimafia sociale. Qui il controllo del territorio da parte dei cartelli dei narcos è talmente forte che i venditori ambulanti, oltre a dover pagare il pizzo per poter svolgere la propria attività, spesso si trovano a dover commercializzare merci che hanno il marchio dei cartelli stessi, ad esempio los Zetas, il tutto con il benestare delle istituzioni locali. I cartelli messicani, come le mafie italiane, mirano al controllo sociale e alla complicità della politica, ma qui negli ultimi sei anni hanno applicato una strategia del terrore che ha prodotto 136.000 morti, paura e vantaggi per i politici corrotti che hanno così potuto giustificare investimenti milionari sull’azione repressiva dimenticando che le mafie si combattono anche con un cambio culturale. Tra i casi più recenti di terrore c’è quello della Colonia La Pastora, nella Delegazione Gustavo A. Madero, nel nord di Cittá del Messico: 17 morti negli ultimi 40 giorni per la lotta per il controllo del territorio. Non si ammazzano soltanto tra di loro, stanno mietendo vittime innocenti. In questo barrio c’è un coprifuoco di fatto, dopo le 8 di sera nessuno deve circolare, dalle 10 si sentono spari per strada e l’illuminazione pubblica è stata distrutta dagli stessi criminali per aumentare il senso di paura ed insicurezza. In una situazione che ai più appare senza speranza, un’alternativa viene data dall’associazione “Barrio Activo” , organizzazione nata cinque anni fa dalla necessità di restituire spazi ai giovani del quartiere e che attraverso attività sociali, come lo sport, riescono ad allontanare centinaia di adolescenti dalla mano criminale. Uno di loro, Edgar, ci racconta di una iniziativa programmata per i primi di maggio, per sensibilizzare la gente del quartiere e per restituire sicurezza al vicinato: “Un Taco por la paz”: si mangia insieme per ascoltare le testimonianze dei familiari delle vittime, promuovere la conoscenza tra gli abitanti della Colonia e per iniziare a fare rete. “Un viaggio lungo mille chilometri inizia con un piccolo passo”.

II Giorno Oggi abbiamo incontrato alcuni familiari delle vittime della guerra al narcotraffico e dei desaparecidos. Qui in Messico la giustizia non esiste, i diritti umani sono lettera morta, questo è il grido forte di Guillermo, il cui figlio Edmundo è stato assassinato nel 2004 perché aveva denunciato la rete di spaccio di droga nel suo quartiere, un omicidio in cui lo Stato ha responsabilità evidenti per la mancanza di protezione e di indagini serie sull’omicidio.  Nello stesso quartiere sabato scorso hanno rapito un ragazzo e nessuno sa perché. Tragedie, come la strage del News Divine, una discoteca dove nel 2009 durante una festa di fine anno scolastico c’è stata un’irruzione della polizia, volta a controllare il consumo di droga nel locale.In pochi minuti tra gas lacrimogeni e spari sono morti dodici adolescenti innocenti. Dagli esami tossicologici è emerso che nessuna delle vittime aveva assunto droga.Due settimane fa finalmente è arrivata la sentenza: a pagare solo i poliziotti che hanno eseguito gli ordini e nessuno dei mandanti è stato giudicato colpevole. Il Presidente del Tribunale ha persino proibito ai familiari delle vittime di assistere alla pronuncia della sentenza. In sei anni 20.000 persone, la maggior parte giovani, sono scomparsi: secuestrados y desaparecidos. Oggi insieme a noi i familiari di alcuni di loro, con la foto, la data e l’età dei loro cari all’epoca della sparizione e ci raccontano di aver incontrato difficoltà non solo nella ricerca, ma già nella denuncia della scomparsa perché minacciati, anche dalle stesse autorità preposte alla ricerca. “Non peggiorate la situazione”, “potreste fare la stessa fine dei vostri cari” sono alcune delle intimidazioni più frequenti. Adela e Manuel cercano la loro figlia Monica, studentessa, desaparecida dal 14 dicembre 2004 quando aveva 20 anni. Maria Guadalupe cerca suo figlio José Antonio, ingegnere, desaparecido dal 25 gennaio 2009 quando aveva 32 anni. Carlos cerca sua moglie Josephina e le sue figlie Johanna di 21 anni e Carla di 19 anni, sequestrate il 6 gennaio del 2011, tutte ancora desaparecidas. Mary cerca suo fratello Matusalem, ingegnere civile, portato via insieme ad altri tre colleghi dalla polizia locale, desaparecido dal 21 ottobre 2009 quando aveva 30 anni. Lizeth cerca suo padre Gersain, commerciante, desaparecido con altri cinque colleghi dal 21 marzo 2009 quando aveva 36 anni. Lizeth aveva 15 anni e sua sorella 12 quando il padre telefonò a casa per avvisare che sei suoi colleghi erano stati sequestrati e che insieme ad altri stava andando a riscattarli. Dal giorno successivo si sono perse le tracce di Gersain e degli altri cinque che erano andati insieme a lui. Dodici persone scomparse nel nulla e l’unico che poteva sapere qualcosa, il proprietario dei furgoni dove sono stati visti l’ultima volta, è stato ucciso quindici giorni fa. La madre di Lizeth è stata tra le prime a far parte di FUNDEC fuerzas unidas por nuestros desaparecidos en Coahuila, l’associazione che riunisce i familiari dei desaparecidos. Mentre Lizeth ci racconta quello che è successo in questi quattro anni e ci dice che non sa se pensare che il padre sia morto o vivo e ancora sotto sequestro e costretto a lavorare: “esto es lo pasa aquí en México.”  Carlos Cruz, uno dei promotori del nostro viaggio messicano, dopo aver ribadito ai familiari dei desaparecidos che nella nostra rete non troveranno semplice solidarietà ma reciprocità, ha concluso l’incontro con il loro slogan: “vivos los llevaron, vivos los queremos”.  Mentre ascoltavo i loro racconti mi sono sforzata di capire le ragioni delle sparizioni forzate, ma non sono riuscita a trovare nessun minimo comun denominatore se non quello della follia criminale. Da oggi sento più forte il mio impegno, adesso è segnato anche da questo dolore che abbatte le distanze.

II I Giorno  – Oggi siamo stati nella sede di Cuace Ciudadano, una delle associazioni partner di Libera, nel nord di Città del Messico per vedere come lavorano gli operatori nel quartiere e come procede l’esperienza dei volontari italiani di Atrevete Mundo. Ognuno di loro stamattina ha illustrato con dei disegni i pregi e i problemi del proprio barrio e mi ha molto colpito vedere che per i giovani messicani le difficoltà del quartiere sono rappresentate dalla violenza, dalla sparizione forzata, dall’AIDS, dalla dipendenza dalla droga, dall’insicurezza e dalla spazzatura. Racconti che non solo mi hanno fatto rivalutare quelli che vivo come disagi nella mia città, ma mi hanno portato ad ammirare la tenacia con la quale invece di scappare o di lasciarsi trasportare nel crimine, resistono e provano a cambiare e a migliorare il loro quartiere. Nel pomeriggio siamo stati ricevuti dalla vice Presidente della Camera dei Deputati che insieme ad alcuni Parlamentari ha ascoltato con attenzione l’esposizione del dossier “México la guerra invisible” redatto da Libera Internazionale insieme alle associazioni partner messicane. Abbiamo parlato della campagna “México por la paz”, dell’importanza del riutilizzo sociale dei beni confiscati e della costituzione di parte civile per i familiari delle vittime delle mafie. Abbiamo chiesto un’assunzione di responsabilità perché l’antimafia sociale per essere efficace ha bisogno di leggi che tutelino tanto i difensori dei diritti umani quanto le vittime. Non so se quelli che abbiamo incontrato siano tutti rappresentanti di una buona politica o se tra di loro c’erano dei corrotti, ma spero che la nostra testimonianza possa servire per decidere da che parte stare. Tornando verso l’albergo abbiamo attraversato il barrio de La Merced, un quartiere difficile dove succede di tutto e dove tutto si può comprare, dai corpi di giovani ragazzine ferme davanti ai negozi, alla droga, alle armi, alla merce pirata. Tutti questi reati si compiono alla luce del giorno, davanti a poliziotti che non intervengono, distratti o collusi? Uno poliziotto é a pochi passi da noi, ma è troppo occupato a riscuotere il pizzo dal conducente di un minibus di passaggio.

IV Giorno – Stamattina ho lasciato Cittá del Messico per raggiungere una mia amica negli Stati Uniti, ho preso un taxi chiamato dall’hotel e durante il tragitto ho scambiato qualche parola con l’autista, Roberto, messicano doc, affascinato dall’Italia. Gli faccio alcune domande per capire quale sia la sua percezione della criminalità e la sua qualità di vita.
Per prima cosa mi raccomanda di non prendere mai un taxi per strada, sopratutto da sola perché è molto pericoloso, tante sono le donne rapinate, picchiate e stuprate in taxi poi abbandonate per strada, mi dice. Passiamo per alcuni quartieri come Obera e Moctezuma e mi chiede se mi sono resa conto che le ragazzine per strada erano tutte prostitute.
In questi quartieri la vendita del corpo a domicilio, sia di giovani donne che di omosessuali, lo spaccio di droga, i furti e gli assalti sono all’ordine del giorno, mi parla di un altro quartiere Tepito, mi dice solo che è il più pericoloso della città e non ho il coraggio di chiedergli che altro possa succedere oltre le atrocità che mi ha menzionato. Il problema non sono solo i cartelli del narcotraffico ma anche le pandillas, gruppi armati di criminali che commettono praticamente gli stessi reati spesso in competizione tra loro. Lo scenario è di una guerra quotidiana per la sopravvivenza contro una moltitudine di nemici, dove molte volte anche le Istituzioni sono corrotte. Gli chiedo cosa si possa fare secondo lui, se denunciare possa essere una soluzione, ma solleva le spalle e con un sorriso amaro mi chiede “e a chi ci rivolgiamo? La polizia è corrotta, hanno degli stipendi talmente bassi che sono facilmente comprabili anche quando non sono collusi.”
Parlare della polizia gli fa venire in mente che pagare un taxi privato in aeroporto è un reato federale, così mi chiede di pagarlo subito altrimenti può essere pericoloso. All’improvviso mi dice che deve fare benzina e si ferma. Mi torna in mente José Antonio, scomparso il 25 gennaio 2009 proprio mentre si era fermato in un rifornimento di benzina, parlava al cellulare con la sua fidanzata che ha sentito tutta la scena del rapimento e ancora una volta provo un forte senso di impotenza, di insicurezza e di rabbia. José Antonio era un ingegnere, come Matusalem e i suoi tre colleghi spariti dal 21 ottobre 2009. Mi chiedo il senso della loro sparizione e mi viene in mente che Los Zetas avevano messo in piedi una rete telefonica, oggi confiscata e distrutta, che collegava tante città, comprese alcune dove non vi era nessun altro collegamento telefonico. Che le sparizioni forzate siano stabilite anche in base alle necessità di competenze e specializzazioni per ottenere un controllo ed un potere sempre più capillare?  Speriamo che qualcosa cambi y suerte, buona fortuna, ci diciamo reciprocamente.

 

V Giorno – Questa mattina sono rientrata a città del Messico all’alba, ho preso un taxi dall’aeroporto per raggiungere l’hotel e anche stavolta ho scambiato qualche parola con il tassista. Per rompere il ghiaccio ho iniziato a parlare del turismo in Messico, ignara di quello che mi sarebbe accaduto poco dopo. Secondo José, questo il suo nome, il numero dei turisti è diminuito per colpa della crisi, così io ho provato a dirgli che secondo me la responsabilità di questa diminuzione potrebbe essere dovuta anche al narcotraffico e alla violenza diffusa e costante e gli ho chiesto che ne pensasse. Lui mi ha risposto dandomi una sua teoria precisa e lucida sulla guerra al narcotraffico: non si riesce a fermare la violenza perché i cartelli vogliono sempre più potere e non hanno intenzione di stringere ancora accordi con lo Stato perché lo ritengono un soggetto debole ed attaccabile.  Subito dopo mi ha raccontato che nel terminal dove ero appena atterrata qualche mese fa c’è stata una sparatoria in cui sono rimasti vittime due agenti della Polizia Federale: “señorita, in aeroporto ci sono telecamere ovunque, eppure nessuna ha ripreso nulla di quell’omicidio. Alcuni amici che lavorano in aeroporto mi raccontano di quintali di droga che transitano ogni giorno come se nulla fosse. Quelli evidentemente avevano deciso di parlare e li hanno uccisi, perché essere onesti in Messico non paga.”  Sono arrivata in hotel ancora turbata da quell’amara constatazione, ennesima conferma della percezione di insicurezza da parte della gente, consapevole della pericolosità dei cartelli e delle responsabilità della corruzione dello Stato, a differenza di Calderon e dell’ambasciatore messicano in Italia che sminuiscono il problema. Non appena arrivata mi sono rivolta alla reception per avere la mia valigia che avevo lasciato nel deposito qualche giorno prima e dopo numerose richieste ecco la notizia: la mia valigia non si trova, è sparita. Solo quando hanno capito che stavo scrivendo la denuncia e che da li a poco sarei andata a presentarla, mi hanno riportato la valigia, ma era stata aperta, rovistata e mi avevano rubato alcuni effetti personali. In questa terra di forti contrasti dove spesso si parla di abusi e corruzione della polizia, a fronte degli impiegati che sono stati maleducati e complici del colpevole, sono rimasta colpita dalla disponibilità e dall’efficienza di avvocati, magistrati e poliziotti. Fare di tutta l’erba un fascio è sempre un errore.

VI Giorno  – Oggi è il primo maggio e anche qui è la festa dei lavoratori che in migliaia marciano sul Paseo de Reforma verso il Zocalo, la piazza principale del centro storico di Città del Messico. Mi sono messa in marcia anche io e sono capitata accanto ad un gruppo di insegnanti precari di Oaxaca, Michoacan e Guerrero che da anni si oppongono duramente alle riforme del sistema educativo del Governo. La mia mente per un momento è volata a Portella della Ginestra dove il primo maggio del 1947 si è consumata una strage. Mentre i contadini stavano celebrando la festa dei lavoratori qualcuno sparò sulla folla, tante le vittime, 11 morti e 27 feriti, un esecutore materiale accertato, Salvatore Giuliano, ma ancora molte le ipotesi sui veri mandanti e troppi ancora i misteri. La strada è presidiata da agenti di polizia in tenuta antisommossa con armi, scudi ed estintori a portata di mano. La situazione mi é sembrata tranquilla fino a quando ho iniziato a sentire dei cori dall’altro lato della strada, mi sono voltata ed ho visto dei ragazzi incappucciati, vestiti di nero e con le bandiere anarchiche. Ho deciso che era il momento di allontanarsi così ho preso la metro ed ho raggiunto il resto del gruppo per un paio di ore di svago, a Coyoacan, un quartiere ricco di intellettuali e di artisti. La piazza principale è coloratissima, piena di gente, i bambini giocano sereni ed i turisti passeggiano in cerca di qualche souvenir, lontani dalle grida dei manifestanti. Sembra una scena di un film anni ’50 con il sottofondo musicale di uno strano strumento a manovella, un’atmosfera rilassante, opposta a quella del centro, dove nel frattempo sono iniziati i primi scontri. Città del Messico è un luogo pieno di contraddizioni, qualche chilometro di distanza e ci si trova in realtà lontanissime tra loro. Mi ha ricordato la mia amata Sicilia e Catania, la mia città, una terra meravigliosa dove spesso si cambia tutto per non cambiare niente. Oggi è anche il momento dei saluti, si conclude l’esperienza di “Giramondi” e di “Atrevete Mundo!”, il gruppo di volontari italiani che ha affiancato gli operatori del Cauce. Ripenso a ieri pomeriggio quando siamo usciti per strada nel loro barrio e Uriel, uno degli operatori, ha steso un tappeto con un vaso pieno di terra, un mucchietto di pietre, la maschera di un giaguaro, simbolo del Messico, e due maschere di due volti di donne una bianca e una nera per il rituale della Pacha Mama con il quale si ringrazia e si restituisce alla Madre Terra il nutrimento che essa fornisce. Ognuno di noi ha versato un po’ d’acqua su tutti gli elementi e ha espresso a voce alta i propri ringraziamenti per l’esperienza di conoscenza e di condivisione vissuta in questi giorni e ha scritto su una foglia l’impegno che da quel momento in poi ha deciso di assumere. Io ho ringraziato per aver avuto la possibilità di conoscere le storie dei familiari delle vittime innocenti della guerra dei narcos e dei desaparecidos ed ho assunto l’impegno di fare memoria anche dei loro cari. Ho ringraziato Carlos Cruz, fondatore di Cauce, i suoi operatori e Claudia Cruz, referente di Libera in Messico, per il loro impegno profondo e quotidiano nella prevenzione sociale e nel recupero dei giovani dei quartieri più disagiati ed ho promesso di far conoscere la loro esperienza affinché sempre più persone possano sostenerli. Il Messico è il maggior distributore di cocaina nel mondo ed ogni volta che la si compra si paga il proiettile che ucciderà chi come Carlos ed i suoi operatori lotta contro il narcotraffico. Ogni nostra azione, anche la più piccola, produce degli effetti su tutto ciò che ci circonda e ognuno di noi ha la possibilità e la responsabilità di scegliere che uragano provocare con il proprio battito d’ali.

La storia/intervista –  Zallo Molokai, la chiamerò così, è una giovane donna senegalese, che ho incontrato per caso camminando per il Town Square Mall, un classico centro commerciale di Las Vegas. Abbiamo iniziato a parlare e dopo qualche scambio sulle nostre terre d’origine mi ha raccontato di aver subito l’infibulazione a due o tre anni, senza nessun anestetico, un dolore talmente forte che non ricorda esattamente quando, ma ricorda l’infibulazione della sorella, subita quando aveva sei anni, per due volte perché la prima non ha funzionato. Ricorda che i suoi genitori piangevano, ma di nascosto perché non potevano opporsi, è una tradizione antica che non può essere violata. Nella loro cultura la donna non deve provare piacere e non può assolutamente avere nessun rapporto fisico prima del matrimonio. Delle lenzuola bianche vengono tutt’ora messe per la prima notte di nozze e se restano pure la donna può essere ripudiata dal marito. Mi racconta che sua madre era stata regalata dal nonno all’età di quattordici anni ad un giovane, suo padre, che lo aveva aiutato nella coltivazione del terreno. Le donne ed i loro corpi sono semplice merce, merce di scambio. La chiamavano prostituta fin da ragazzina per il solo fatto che le piacesse danzare e portare i capelli sciolti, la sua era una famiglia di origine nobile ed i nobili non danzano. Mi racconta di essere stata abusata tante volte dallo zio quando era bambina e che in cambio le regalava dei cioccolatini e dei soldi, ‘educandola’ al rapporto di scambio e corrompendo per sempre la sua innocenza. Per anni aveva rimosso gli abusi domestici subiti, fino al suo primo rapporto con il marito, quando ha avuto come dei dejà vu. Lo aveva conosciuto al mercato, era un giovane americano, si erano sposati in segreto dalla famiglia perché sapeva che i suoi genitori non avrebbero approvato, così è scappata con lui a Honolulu. Lei credeva che fosse amore e che lui l’avesse finalmente liberata dalla violenza della sua infanzia, ma invece iniziò a sostituirsi al padre e a pensare di poter fare dei soldi con lei facendola ballare nei nightclub ma ad ogni suo rifiuto scattava una lite ogni volta più furiosa. Ben presto iniziò a picchiarla, sempre più forte. Da un inferno era scappata ed in un altro si era ritrovata accanto ad uomo che la picchiava e la ricattava dicendo che se si fosse ribellata l’avrebbe rispedita in Africa o avrebbe mandato delle sue foto sexy ai genitori in Senegal per mostrargli che avevano ragione, era diventata una prostituta. Mesi di paura e di violenza durante i quali la polizia intervenne ripetutamente e per sei volte arrestò il marito che a quel punto capì che sta perdendo ogni controllo su di lei. Lui pianificò una vendetta, prese un coltello, si ferì e chiamò la polizia per farla arrestare per aggressione e farla rimpatriare. Fortunatamente i poliziotti si accorsero della messa in scena e lo portarono via. Zallo è sola, ha paura di essere rimpatriata ma viene a sapere che la legge americana prevede una tutela per le vittime domestiche e che queste acquisiscono il diritto di residenza. È finalmente libera e anche se non sa bene come, decide di cambiare vita.Inizia a lavorare in un ristorante e a prendere lezioni di danza, ma finisce a lavorare in uno strip club e la sua schiavitù ricomincia. Anche qui continua ad essere picchiata ogni volta che si rifiuta così decide di scappare, di nuovo, vola a Los Angeles e poi a Las Vegas dove da dieci anni lavora con il Cirque du Soleil come ballerina. Da un paio d’anni ha iniziato a disegnare vestiti e quando le è capitata l’occasione ha aperto una sua boutique con un teatro dove ogni domenica recita in “The Red Dress”, il vestito rosso, simbolo della prostituzione, per raccontare cosa sta dietro la realtà apparentemente patinata degli strip club. La follia di questo mondo fatto di violenza, di droga, di dipendenza e di ossessioni dal quale è riuscita, ancora una volta, a scappare.

I “Quaderni messicani” sono a cura di Flavia Famà, fra i volontari che hanno partecipato alla sette giorni di “Giramondi” con Libera in Messico.

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